L’ennesima pietra preziosa incastonata in una stagione del Teatro Alla Scala durante la quale, in più occasioni, si è usciti dal teatro con la sensazione di aver assistito al miglior spettacolo in cartellone.
Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel, diretto da Giovanni Antonini, con la regia di Robert Carsen, è l’ennesima pietra preziosa incastonata in una stagione del Teatro Alla Scala durante la quale, in più occasioni, si è usciti dal teatro con la sensazione di aver assistito al miglior spettacolo in cartellone, per poi doversi ricredere alla produzione successiva.
Una storia contemporanea interpretata con sottile ironia
L’opera barocca, basata su numeri chiusi, in cui anche la trama era un pretesto al servizio dei virtuosismi dei cantanti, sarebbe improponibile al giorno d’oggi nella sua forma originaria. La drammaturgia deve essere necessariamente riadattata all’attuale gusto interpretativo, per non cadere nel rischio di polverose riproposizioni museali. Eccellente da questo punto di vista è il lavoro che ha svolto Robert Carsen, coadiuvato nella drammaturgia da Ian Burton, nel reinventare per questa partitura una vicenda contemporanea basata su intrighi sentimentali e di potere. Giulio Cesare, arrivato in Egitto per questioni di petrolio, come scopriremo alla fine, si inserisce nella lotta per il potere tra il re Tolomeo e la sorella Cleopatra, di cui subirà il fascino.
Moltissime sono le idee che il regista canadese mette in gioco, spesso con una sottile vena ironica, che consentono alle quasi quattro ore di spettacolo di scivolare con leggerezza. Gli ambienti in cui si svolge la vicenda, progettati da Gideon Davey, autore anche dei costumi, sono le dune del deserto, dove i protagonisti agiscono in tuta mimetica, e le sale del palazzo di Tolomeo, in cui si mescolano abiti occidentali e mediorientali.
Di grande effetto la scena della seduzione in cui Cesare si trova davanti ad uno schermo cinematografico sul quale vengono proiettate alcune sequenze delle più celebri Cleopatre della storia del cinema, l’ultima delle quali esce letteralmente dallo schermo per conquistarlo. Una volta spodestato il fratello e conquistato il cuore di Cesare, Cleopatra potrà firmare con lui i sospirati accordi commerciali davanti ad un imponente oleodotto.
Interpretazione esemplare
Se lo spettacolo visivamente è godibilissimo, musicalmente è un capolavoro. Per evitare la ridondanza dei “da capo” delle singole arie, Carsen ha per ciascuna di esse costruito delle azioni che catturassero l’attenzione del pubblico, ma in realtà con un tale cast ogni ascolto, “da capo” compresi, è puro godimento. Bejun Mehta è interprete di riferimento per il ruolo di Cesare, di cui fa risaltare più l’aspetto lirico rispetto a quello eroico. La voce è splendida e la tecnica ineccepibile, sia nel fraseggio che nelle agilità, affrontate con sicura baldanza. Al suo fianco l’ottima Danielle de Niese disegna una Cleopatra sensuale, maliziosa, caratterizzata da un timbro morbido e un’eccellente padronanza delle colorature, come ha avuto modo di sfoggiare nell’aria “Da tempeste il legno infranto”.
Sara Mingardo si conferma interprete superlativa nel ruolo di una Cornelia mesta, dolente, come emerge dall’aria “Priva or son d’ogni conforto” e dai duetti con il figlio Sesto. Purtroppo il suo personaggio è stato il più penalizzato dai tagli in partitura, privandoci di altri momenti sicuramente memorabili. Straordinario Philippe Jaroussky, che esce a testa alta dall’impegnativo ruolo di Sesto, sia nelle pagine più dolenti che in quelle impetuose, grazie ad una tecnica ed una tenuta vocale eccellenti. Caratteristiche queste ultime che appartengono anche al terzo dei controtenori in scena, ovvero Christophe Dumaux, perfetto nel ruolo di Tolomeo. Di gran livello gli altri interpreti: Christian Senn (Achilla), Luigi Schifano (Nireno) e Renato Dolcini (Curio).
Giovanni Antonini, alla testa dell’Orchestra della Scala, coadiuvata da un quartetto di superbi musicisti al basso continuo, si conferma uno dei massimi interpreti di questo repertorio. La sua è una lettura estremamente articolata nelle dinamiche, briosa, guizzante ma dalle sonorità morbide, lontanissime da certe aridità che caratterizzano le interpretazioni su strumenti d’epoca. Il racconto si dipana fluido, la tenuta è impeccabile e la cura nel cesellare i minimi particolari non è mai fine a se stessa. Come sempre impeccabile la prova del coro diretto da Bruno Casoni.
Al termine applausi incondizionati da parte di un teatro quasi esaurito.