Tenero e tagliente, speranzoso e pessimista, romantico e feroce al tempo stesso questo Giusto di Rosario Lisma: che è anche l’autore del testo e il regista dello spettacolo. L’attore siciliano è one man show: sul palcoscenico ci sono lui, il suo smoking, una bottiglia di vino frizzante in procinto di combinare disastri, e tre fari che si accendono sui vari personaggi creati da Lisma, facendolo passare da un universo all’altro.
Giusto è uno spettacolo comico, dove si ride parecchio: ma in tre secondi ti ritrovi in un dramma che a volte rischia di sconfinare nella tragedia.
Giusto è nato su un’isoletta della Sicilia: dove i rapporti umani sono semplici, diretti, autentici e senza ombre come il sole a picco. Poi è andato a Milano, dove ci sono solo maschere. E’ emigrato per lavorare in un ufficio dell’Inps, dopo avere vinto un mostruoso concorso statale da migliaia di candidati.
L’aggettivo mostruoso non è scelto a caso. Lisma infatti riprende e amplifica le tematiche fantozziane di Paolo Villaggio, portandole ad un livello superiore di complessità psicologica e analisi sociale, con relativa critica del sistema. Come Fantozzi, Giusto è un disadattato, un emarginato. Subisce le dinamiche delle relazioni sociali, dentro e fuori l’ufficio: un posto di lavoro che diventa un universo a parte. Giusto è vittima del sistema, dei colleghi che lo scherniscono, dei superiori che lo umiliano: subisce perché pensa di non avere nemmeno il diritto di ribellarsi.
Giusto come Fantozzi, ma più intelligente
Spende tutte le sue energie per cercare di entrare nel meccanismo delle relazioni sociali degli altri: ma arriva sempre troppo tardi.
Come Fantozzi ha un sogno sentimentale segreto, e come lui non ha il coraggio di provare a realizzarlo. La conferma di questo parallelismo Villaggio-Lisma arriva dalla scena del karaoke in Giusto, che è omologa a quella famosissima del biliardo in Fantozzi: “Rinterzo ad effetto con birillo centrale, calcio a cinque sponde, triplo filotto reale ritornato con pallina!”. Lisma mette a nudo il meccanismo perverso dei social, che crea una realtà fittizia e parallela, e lo smonta alla luce dell’ingenuità di Giusto.
Rosario Lisma ha una padronanza totale della sua prossemica. Qualche esempio? Si accende una luce e il pubblico vede un uomo insignificante, che fallisce pure nel suicidio, ed empatizza con lui.
Poi Lisma si gira dall’altra parte e si trasforma in un rampante e tracotante raccomandato. Una mossa veloce, un cambio di mimica, ed è diventato una donna: un’altra anima persa in cerca di una speranza. Un passo di lato ed è un impiegato dell’anagrafe balbuziente, un collega crudele, una moglie insoddisfatta.
C’è tutto, in questo spettacolo: la critica sociale, la satira; l’angoscia esistenziale e psicologica degli emarginati; la solitudine di chi pensa di essere dalla parte del vincente e non è vero; la storia d’amore che ti inchioda per vedere come va a finire; la risata amara e il paradosso che ti fa scompisciare. Nelle inflessioni riconoscete i personaggi di Villaggio, Teo Teocoli, Pino Caruso e chissà chi altro. E quando si spegne la luce, si capisce che in realtà c’è una luce anche per gli ultimi.