Le fiabe della tradizione occidentale si sviluppano all'interno di una precisa intelaiatura morale, un impianto di valori e di credenze che si deve assumere come indiscutibilmente condiviso fra autore e lettore; un universo comportamentale statico che la narrazione, attraverso le vicende esemplari dei personaggi, mira a ribadire, fissando ipostaticamente il sistema morale della comunità. Non esiste perciò soltanto una chiave pedagogica nel sottotesto della fiaba, ma anche una precettistica adulta; e se la missione educativa è suggerita in prima evidenza dalla connotazione magica, giocosa, irrealistica delle situazioni narrate, non manca in genere un livello ermeneutico orientato alle opzioni della maturità, al giogo della necessità, alle asprezze della vita responsabile.
Un lavoro contemporaneo di riscrittura di una fiaba parte perciò necessariamente da questa mappatura del testo – più che dal contenuto narrativo in senso stretto – nonché dalle implicazioni che una precettistica rivisitata con lo scarto dei secoli può attivare sui paradigmi della contemporaneità; per ribaltamento, per iperbole, o per contraddizione rispetto ai valori di riferimento del presente.
È chiaramente questo il presupposto con cui lo scrittore Claudio Buono ha affrontato la rivisitazione della celebre fiaba di Hänsel e Gretel, pubblicata nel 1812 dai fratelli Grimm, ma elaborata su materiale narrativo risalente fino al medioevo. Buono inventa un possibile seguito delle vicende mantenendo essenzialmente fissa la struttura dei personaggi, ma eseguendo il rovesciamento e la reinterpretazione dei temi originari secondo una collocazione attuale. Così ad esempio il motivo d’innesco della fiaba – la fame disperata, che induce i genitori poverissimi ad abbandonare i due fratellini nel bosco – diventa per grottesco contrappasso l’appetito smodato e insaziabile dei due protagonisti, oramai cresciuti, che gravandosi di significati nel corso della vicenda sarà infine causa della loro definitiva perdizione.
Significativa la revisione del titolo, che degrada al ruolo di comprimario il personaggio maschile, innalzando a coprotagonista la madre dei bambini, che nella storia originaria è la dispotica responsabile dell’abbandono; e il cui svelamento sulla scena – anche se nel simbolico sembiante di un bastone, strumento di punizione –, che si compie soltanto nel finale, riverbera all’indietro sulla storia un colore quasi psicanalitico: se nella fiaba dei fratelli Grimm i bambini non soltanto non serbano rancore verso i genitori, ma anzi a loro tornano nel lieto fine, qui la “circolarità” della vicenda si realizza nell’identificazione di Gretel con la feroce madre, di cui la ragazza disprezza la memoria ma di cui ineluttabilmente proroga gli atteggiamenti di spietata aggressività.
Meno sviluppata la figura della strega – che per ragioni di fedeltà alla fiaba è soltanto una discendente di quella autentica – cui è attribuito il compito di circoscrivere le pulsioni dei due fanciulli, compresa l’illusione temporanea della libertà; una sorta di super-io malato, che asseconda l’ingordigia infantile preparando la nemesi ed esercitando la sua occulta regia attraverso la dipendenza. Nella fiaba ottocentesca Hänsel e Gretel si riscattano con l’astuzia e con l’intraprendenza adulta, oggi invece soccombono perché, incapaci di riconoscere il limite delle cose, sono facili vittime della loro acritica e ambigua voluttà.
La regia di Gabriele Russo si fa carico delle intenzioni del testo realizzando una scena essenzialmente astratta, dove gli oggetti possono liberare il loro carico simbolico perché non condizionati ad una funzionalità banalmente scenografica. L’opposizione fra un ambiente interno – del desiderio, della fantasia, della consolazione – e un luogo esterno – dell’aspro confronto col reale – viene amplificato dalla scelta delle luci, morbide e crepuscolari le prime, decise e taglienti le seconde. Molto valida la prova dei tre giovani attori, con la potente e seduttiva strega Swidgard interpretata da Raffaella Pontarelli, calibrata e puntuale nell’espressione, un docile Hänsel, che Gennaro Maresca realizza con intelligenza e misura, evitando gli eccessi della caratterizzazione, ed una veemente Gretel, nell’esecuzione di Diletta Acquaviva, che sarebbe stata ancor più intensa ed efficace se avesse concesso qualche occasionale discesa al tono della voce.
Alla scrittura ricca e articolata di questo lavoro fu attribuito nel 2011 il premio del Bando campano di drammaturgia, e con giusta considerazione il teatro Piccolo Bellini ha tenuto in cartellone l’opera per tre settimane, ripagato da un’adeguata attenzione da parte del pubblico napoletano; lontano dalle produzioni troppo ricche e troppo stanche, il teatro è vivo ed ha ancora molto da raccontare.