Ultima opera scritta da Gioachino Rossini, capolavoro assoluto della storia dell’opera lirica, Guillaume Tell ha finalmente debuttato al Teatro Alla Scala nell’edizione originale in lingua francese 195 anni dopo la prima rappresentazione all’Opéra di Parigi e dopo essere andato in scena sul palcoscenico milanese in 12 diverse edizioni ma sempre nella traduzione italiana firmata da Calisto Bassi.
Libertà e natura
Inno alla libertà -lo splendido finale si conclude infatti con la parola Liberté- l’opera, tratta dall’omonimo dramma di Friederich Schiller, narra della liberazione del popolo svizzero dalla dominazione asburgica ad opera del suo eroe nazionale Guglielmo Tell; tutto questo all’interno di una cornice musicale che, in perfetto stile preromantico, esalta la bellezza della natura che nello specifico si identifica con le montagne elvetiche.
Per la regista Chiara Muti la libertà ed il conseguente ritorno all’ordine naturale delle cose vanno intesi come liberazione dagli schermi degli smartphone che condizionano la vita degli individui nella società attuale. Idea non originalissima ma sulla carta interessante, che però, oltre ad essere lasciata in superficie -i tablet accesi non entrano mai a far parte realmente dell’azione ma vengono solo di quando in quando accesi e sventolati dal coro- viene fagocitata da un affastellarsi di simboli, perlopiù di carattere religioso che, anziché arricchire l’idea registica di ulteriori significati, distraggono e si accumulano in una sorta di bric à brac.
La vicenda viene ambientata nell’ormai teatralmente inflazionata società distopica senza tempo -convivono infatti armature, balestre e mitra- in questo caso ispirata al film Metropolis di Fritz Lang: citazione riconoscibile nei costumi monocromatici di Ursula Patzak, mentre le scene di Alessandro Camera, che non hanno la potenza visionaria degli originali firmati cent’anni fa da Otto Hunte, ricostruiscono una serie di ambienti cupi e indefiniti grazie all’impiego di alte quinte nere rotanti.
All’interno di questa scatola buia, che tale resta per tutte le 4 ore dello spettacolo, vediamo il tiranno Gesler che, pur essendo l’oppressore, nulla ha a che fare con gli “opprimenti” tablet ma, in quanto personificazione del demonio, gira con il classico costume da cattivo di turno, ovvero mantello e cappuccio, circondato da una serie di figure allegoriche che rappresentano i sette peccati capitali, una della quali abbigliata come Maria -la protagonista di Metropolis- nella sequenza in cui si esibisce a Yoshiwara.
Assistiamo quindi a scene di varia violenza tra cui una caccia all’uomo, lo stupro delle spose dopo la scena del matrimonio, l’uccisione di Melchtal ricalcata sulla passione di Cristo, che si concludono nel finale con l’apparizione nientemeno della Morte con tanto di falce che scintilla nella nebbia.
In sostanza tante idee, che in alcuni casi oscillano tra il didascalico e il gratuito -sorvoliamo sugli sventolii di bandiere come si faceva negli spettacoli degli anni ’60- che aprono tante strade rischiando però di far perdere l’orientamento allo spettatore.
Eccellenti direttore e cast
Se la regia convince più per le intenzioni che per la realizzazione, di tutt’altro livello è l’aspetto musicale grazie in primis alla direzione di Michele Mariotti che, parafrasando Leibnitz, ci ha fatto ascoltare “il migliore dei Guillaume Tell possibili”. Il direttore pesarese, tra i massimi interpreti rossiniani del nostro tempo, coglie appieno le caratteristiche di questa partitura che si trova a metà tra classicismo e romanticismo, mantenedosi in perfetto equilibrio tra queste due componenti.
La concertazione, caratterizzata da un grande equilibrio cui non manca un lavoro minuzioso di cesello, affianca grande espressività ed altrettanta tensione drammatica, per cui la musica sembra sgorgare spontaneamente, senza forzature, rendendo palpabili anche quelle descrizioni della natura che la regia al contrario non sviluppa.
Ovviamente un risultato del genere non sarebbe possibile senza un’orchestra in stato di grazia ed un coro superlativo che ad ogni esecuzione stupisce sempre di più per il livello di perfezione raggiunto quali sono l’Orchestra e Coro del Teatro alla Scala quest’ultimo magistralmente diretto da Alberto Malazzi.
Straordinario anche il cast a partire da Michele Pertusi che, nonostante il timbro da basso-baritono sia leggermente più scuro rispetto ai baritoni che normalmente interpretano questo ruolo, tratteggia un Guillaume Tell magnifico per la linea di canto, il fraseggio e lo scavo interpretativo del personaggio. Al suo fianco spicca l’Arnold di Dmitry Korchak che viene disinvoltamente a capo dell’impervia parte grazie ad un timbro luminoso che gli consente grande espressività ed altrettanta facilità nella salita all’acuto.
Rimarchevole anche il Gelser spavaldo e sprezzante di Luca Tittoto, caratterizzato da un’emissione impeccabile e grande presenza scenica, mentre Salome Jicia è una Mathilde estremamente musicale, dalla solida linea di canto, cui forse manca quella ricerca nel fraseggio che le consentirebbe di rendere appieno il personaggio. Catherine Trottmann è un Jemmy dalla voce brillante cui si contrappongono i toni più gravi ed austeri dell’Hedwige di Géraldine Chauvet. Tra gli altri si segnalano le valide prove di Evgeny Stavinsky (Melchtal), e Nahuel di Pierro (Walther).
Un teatro esaurito ha tributato un successo pieno a tutto gli artefici della parte musicale con un trionfo assoluto per Mariotti, accolto con entusiasmo non solo a fine rappresentazione ma anche ad ogni risalita sul podio al termine dei vari intervalli.