Con il terzo Hamlet della sua carriera da regista – “uno ogni dieci anni circa”, per sua stessa ammissione – Antonio Latella suggerisce al pubblico“di provare, non solo a guardare, ma anche di mettersi in ascolto di ogni parola del testo”, attraverso un percorso di esplorazione tra le pieghe più nascoste del testo di Shakespeare.
Regista, attori e traduttore (Federico Bellini) stringono un patto con gli spettatori, i quali accettano (per oltre sei ore, intervalli compresi) “di perdersi nelle possibilità infinite che quest’opera offre”.
Lo svelamento del gioco teatrale
La suggestiva arena dello Studio Melato è la location ideale per assicurare il coinvolgimento del pubblico, portando a compimento lo svelamento del gioco teatrale; con la realizzazione di un allestimento nella piena luce disegnata da Simone De Angelis.
La scenografia, all’apparenza essenziale, sancisce innanzitutto la componente “sacra” del testo: un inginocchiatoio – che diventa protagonista quasi quanto coloro che lo utilizzano – alcune panche, un pianoforte a coda, ma soprattutto una voragine al centro dello spazio scenico, che diventa di volta in volta nascondiglio e luogo di riflessione per Hamlet (dal cui interno recita il celebre monologo dell’Essere o non essere), una vasca della disperazione per Ofelia (Flaminia Cuzzoli) e, subito dopo, il luogo della conversazione con i becchini che le stanno scavando la fossa.
La musica viene affidata al personaggio di Laerte (Ludovico Fededegni) che, nella prima parte, siede al piano battendo tasti, senza riuscire a riprodurre note, per poi esplodere nella tragedia con l’arrivo dei teatranti alla corte di Danimarca. A quel punto la follia dilaga e appare chiaro che riguarda tutti, non solo Ofelia.
L’ambiguità oltre la distinzione di genere
Un altro elemento a rendere unico questo allestimento è la scelta di affidare il ruolo protagonista a Federica Rosellini, interprete che secondo il regista “possiede il dono artistico dell’ambiguità e del dubbio”. La sua interpretazione è degna di merito per tutto il tempo passato a recitare china sull’inginocchiatoio, con il quale riesce a creare un’interazione quasi simbiotica.
Il suo Hamlet ha il merito di andare oltre il topos edipico di matrice freudiana nel rapporto con la madre Gertrude (Francesca Cutolo) superando quindi la sessualità fisica e qualsiasi distinzione di genere. Di conseguenza, risulta più evidente la disinvoltura - e l’intenso fervore - nell’esprimere, attraverso i versi del Bardo, una variegata gamma di sentimenti che vanno dal cinismo al sarcasmo, dalla fragilità al disprezzo.
Siamo tutti Hamlet
Hamlet è indubbiamente il protagonista della storia, ma l’intero cast di questo allestimento – dieci attori di differente età, formazione e provenienza – si trova a fare i conti con il testo shakespeariano e, in molti casi, con più di un ruolo da interpretare, a conferma della minuziosa cura che il Bardo riservava ai personaggi secondari, affidando loro una sofisticata caratterizzazione: lo si nota, per esempio, nell’interessante prova d’attore di Andrea Sorrentino, chiamato a interpretare otto personaggi, tra i quali Rosencrantz e Guildenstern, che, affidati a un solo attore, riescono comunque a mantenere ciascuno la propria specificità, con effetti metateatrali e comici garantiti.
I costumi sono un ulteriore elemento che identifica tutti gli attori nel personaggio di Hamlet, con la sola eccezione di Orazio (Stefano Patti, dalla risata riconoscibile e contagiosa), destinato a essere testimone della tragedia che sta per compiersi. Per questo motivo, reso più contemporaneo, indossa sempre giacca e cravatta. Gli altri invece, nella prima parte vestono uno smoking bianco, colore che evoca lo Spettro (goliardicamente interpretato da Anna Coppola. Nella seconda parte il bianco viene sostituito dal nero dell’abito elisabettiano, che introduce il tema della rappresentazione e l’arrivo a Elsinore dei teatranti.
Effettivamente, affrontare la versione integrale di questo allestimento può essere considerata un’esperienza di teatro totale; però, diversamente da quanto sostenuto dal regista, non si tratta di un atto propriamente politico, bensì di un’assunzione di responsabilità personale, conseguenza diretta dell’essere venuti a teatro, “regalandosi un tempo come la durata di uno spettacolo”; circostanza per nulla scontata, soprattutto nell’era Covid.