Catapultati in una Danimarca più sanguinaria che mai, ci si raccapezza ben poco per la prima mezz'ora.
Non fosse altro per la lingua farsi non proprio agevole, ti aspetti comprensione e compassione e quindi un Amleto classico, da seguire almeno nei tradizionali atti.
Invece ti arriva un frullatone fatto di salti temporali, innesti bizzarri, scene clou capovolte e personaggi rivisitati, con la scena del fantasma post-posta di molto (troppo) tempo. Il principe danese veste sempre in nero, con anfibi e zainetto a completare l'outfit; Laerte zoppica, esasperato, mentre Rosencrantz e Guilderstern (qui vescovo e parassitologo) si concentrano sui rispettivi chakra.
La Danimarca, manicomio zeppo di ficcanaso e stupratori, pare essere stanca di sangue. Eppure i fantasiosi persiani della Quantum non ci risparmiano l'ecatombe finale e anzi danno lo scettro in mano al becchino, che si lancia in una (im)memorabile apologia della vanga. Scienze politiche e Scandinavistica, ecco le facoltà universitarie che servirebbero alla nazione.
I salti temporali portano in scena Garcia Marquez, Guerra e Pace, musica argentina (forse), il sentiero delle riforme, oltre a un Polonio Tim Burton-vestito (qui Poly Mani di Forbice). Si parla di relazioni neuronali e, come se il farsi non bastasse, entrano in gioco ulteriori commistioni linguistiche (francese e latino). I sovratitoli in italiano, spesso fuori sincrono, quando creano il vuoto vengono accolti dai più con una sorta di sospiro di sollievo. La sirena della nave che dovrebbe portare lontano Amleto ti riconcilia, barlume di "casa-dolce-casa" in un territorio pieno di mine.
Eppure, a un certo punto, tutto torna in linea: tempo, spazio e tempo-spazio. Ti ritrovi - forse un po' tardi - e riconosci i tratti somatici di un qualcuno che pareva perduto o, semplicemente, sfigurato.
Non basta, tuttavia, a risollevare le sorti di due ore che non catturano, ma che ti tengono prigioniero.