Strani casi della vita. I due Foscari, opera d'ambientazione veneziana – al centro, le figure storiche del doge Francesco Foscari e del figlio Jacopo - che Verdi aveva proposto al Teatro la Fenice contando di bissare il successo di Ernani, vide la luce più a sud, nel romano Teatro Argentina, il 3 novembre 1844.
I vertici del teatro veneziano vi avevano rinunciato, nel timore che il soggetto potesse urtare gli ultimi rappresentanti delle nobili famiglie Loredan e Barbarigo: due loro avi figuravano – specie lo spietato Jacopo Loredano - come i 'cattivi' dell'opera. E alla Fenice andrà in scena l'Ernani.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Il pubblico veneziano, comunque, ebbe modo di rifarsi ampiamente: I due Foscari dopo aver raggiunto molte piazze importanti – fra cui Milano, Parigi, Vienna, Londra, Barcellona – approdò in Laguna già nell'aprile 1845, al Teatro San Benedetto; poi vi andò in scena al Teatro Apollo (l'attuale Goldoni) a settembre 1846; e nel febbraio 1847 raggiunse da ultimo la Fenice. Tre allestimenti, dunque, in neppure due anni.
La prima figura baritonale a tutto tondo
I due Foscari sigla ora la bella stagione 2022-23 della Fenice. L'ultima sua apparizione nella sala del Selva risale al febbraio 1977, assenza invero troppo lunga. Poiché pur non ponendosi fra i vertici teatrali di Verdi, i suoi buoni valori musicali li possiede; e perché segna una svolta nella sua produzione, vedendo l'apparire del suo primo personaggio drammaturgicamente (e musicalmente) scolpito a tutto tondo, cioè il vecchio doge Foscari. Il primo d'una serie di personaggi tragici - generalmente baritonali, generalmente paterni - che punteggeranno l'evoluzione verdiana: da Macbeth a Miller, da Rigoletto a Montfort, da Simone a Filippo II.
Un doge che ha vissuto troppo a lungo
Vecchio doge che qui è Luca Salsi, interprete verdiano ormai per eccellenza. Foscari l'ha debuttato a Trieste nel 2011 e portato anche all'Opera di Roma nel 2013 ed alla Scala nel 2016. Il personaggio ovviamente è ben rodato, e gli risulta impareggiabile: ben centrato nella figura, psicologicamente rifinito, supportato da un bel colore colore timbrico, e da un'emissione generosa, fluente, sempre omogenea. Con vette assolute nel virilissimo sdegno in «Quest'è dunque l'iniqua mercede», nella fiammata emotiva di «Ciel pietoso», nel ripiegamento di «Vecchio cuor che batti».
Francesco Meli, voce di non comune bellezza, è lo sfortunato figlio Jacopo, figura risolta tutta sul piano lirico, sulla spontaneità di canto. Come si conviene al bravo tenore genovese, dal centro caldo e morbido, e mai che deve sforzare per risolverne in alto la svettante tessitura.
Moglie e madre, schiantata dal dolore
Lucrezia Contarini la vediamo consegnata ad Anastasia Bartoli, al debutto nel non facile ruolo sopranile: la vocalità naturalmente tendente al cupo – quasi ai limiti del mezzosopranile - le permette di dar forza e pienezza a questa figura veemente e tragica di sposa e di madre, sostenendo a dovere tutte le arcate protese all'acuto, e colorando a dovere, con sicurezza e nitore ogni nota.
Quanto al tenebroso ed implacabile Loredano, motore della vicenda, sta nelle mani di Riccardo Fassi, interprete solido ed espressivo. Marcello Nardis è un valido Barbarigo; Carlotta Vichi è Pisana.
Una concertazione accurata e sensibile
Attinge a cospicui risultati la bella direzione di Sebastiano Rolli, cimentandosi in un'opera che lo stesso Verdi trovava nell'insieme – al di là degli indubbi valori musicali – monocorde nella 'tinta' sin troppo fosca. In un arco narrativo sempre ben teso, Rolli lavora molto sugli accenti e sulle sfumature, procede d'introspezione ed evita la magniloquenza, sottolinea strumentalmente – e l'orchestra lo coadiuva a perfezione – gli abbandoni lirici e patetici di cui la partitura è cosparsa, senza mai cadere nell'enfasi. O peggio nel lacrimevole pietismo. Per inciso, l'edizione adottata è quella critica Ricordi a cura di Andreas Giger. Maestro del Coro è Alfonso Caiani.
Meglio il sentire, che il vedere
Lo spettacolo in sé è stato varato al Maggio Musicale Fiorentino 2022. La regia di Grischa Asagaroff segue passo passo il libretto, ponendo il dramma personale della famiglia Foscari al centro. Ossequiosa e poco perturbante; ma anche poco originale, se non a tratti proprio grossolana.
Dobbiamo a Luigi Perego gli orribili costumi d'epoca rivisti con gusto moderno: addirittura ridicoli quelli della festa popolare, con i ferri da gondola – i 'dolfin' – messi in testa a mo' di cimiero. Come pure la scenografia imperniata su un volume centrale rotante che, partendo dall'immagine della vera tomba dogale ai Frari, descrive tutto sommato bene i vari contesti. Le buone luci sono di Valerio Tiberi.