Prima nuova produzione della stagione 2022/23 dopo il Boris Godunov inaugurale, l’opera I vespri siciliani di Giuseppe Verdi è tornata al Teatro alla Scala dopo un’assenza di oltre 30 anni, sempre nella traduzione italiana di Eugenio Caimi come già era avvenuto nella precedente edizione, diretta da Riccardo Muti nel 1989.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
I Vespri: un’opera laboratorio
Primo titolo scritto dopo i tre capolavori della cosiddetta “Trilogia popolare” (Rigoletto, Trovatore e Traviata), Les vêpres siciliennes, che debuttò su libretto francese all’Opéra di Parigi nel 1855, è la prima opera che Verdi compose espressamente per quel teatro. Infatti la Jérusalem che andò in scena 1847 era il rifacimento dei precedenti Lombardi alla prima crociata. Per questo motivo la partitura si può considerare ancora come una sorta di laboratorio nel quale Verdi cerca di coniugare il suo stile con le esigenze del Grand opéra francese, ovvero monumentalità, massiccio impiego delle masse e la presenza di balletti.
Caratteristiche queste che vanno a discapito di quella concisione e quella capacità di scolpire i personaggi che avevano caratterizzato i suoi titoli precedenti e che troveranno invece compiutezza nel successivo lavoro scritto per il teatro parigino ovvero quello straordinario capolavoro che è Don Carlos.
Dalla Sicilia medievale alle guerre contemporanee
Questa nuova produzione era firmata da Hugo De Ana, scenografo e costumista che da anni pratica anche la regia ma che in questo caso ha mostrato i limiti dell’essere uno e trino. Gli spettacoli realizzati da De Ana sono solitamente caratterizzati da un grande sfarzo dal punto di vista visivo (va detto che in quanto a gusto e colpo d’occhio lo scenografo argentino ha pochi rivali) in cui la regia si limita a giustapporre cantanti e masse sceniche in posizioni esteticamente accattivanti ma senza una vera e propria drammaturgia che ne guidi le azioni.
Nello specifico la vicenda medievale narrata nel libretto è stata trasposta ai giorni nostri durante una non meglio precisata guerra, con gli invasori francesi sostituiti da un esercito di militari contro cui il popolo cerca di ribellarsi. Un’ipotesi potrebbe essere lo sbarco alleato in Sicilia ma non è così esplicita.
All’interno di una scenografia grigia e plumbea si alternano carri armati, cannoni, spari di fucili, senza che mai avvenga realmente qualcosa: i protagonisti cantano a proscenio, i cori sempre impalati, quando non costretti ad una mimica improbabile, e qualche comparsa che si cristallizza in tableaux vivants tanto ricercati nell’estetica quanto poco efficaci per la tensione drammatica.
Nulla di così diverso dai precedenti spettacoli di De Ana, con la differenza che, se in passato almeno lo sguardo veniva appagato dalla bellezza e dalla magnificenza di scene e costumi, in questo caso l’onnipresente grigiore rende tutto ancora più monocorde. Poco aggiungono le coreografie di Leda Lojodice, meno riuscite del solito, e il tentativo di simbolismo fine a sé stesso dato dal continuo andirivieni del crociato e della Morte che giocano a scacchi, evidente citazione del Settimo sigillo di Bergman.
Un’esecuzione musicale in crescendo
Alla testa dei complessi scaligeri Fabio Luisi ha optato per una concertazione raffinata ed attenta alle sfumature che, se da una parte ha tratteggiato con grande intensità i passaggi più lirici e sentimentali quali i duetti tra Elena e Arrigo, è sembrata priva di mordente in quelli più eroici e concitati, a discapito della teatralità, soprattutto nei primi due atti.
Dopo il primo intervallo Luisi ha dato però l’impressione di trovare una maggiore affinità con la partitura, riuscendo a toccarne le corde più profonde e dando vita ad un terzo atto coinvolgente ed emozionante che ha segnato un cambio di passo anche per il prosieguo della rappresentazione.
I protagonisti
Marina Rebeka ha affrontato il ruolo di Elena, uno dei più impervi del repertorio verdiano, con tecnica impeccabile e timbro saldo sia nel registro grave che nelle agilità, caratteristiche che le hanno consentito di scolpire un personaggio energico e volitivo. Al suo fianco l’Arrigo di Matteo Lippi, subentrato all’ultimo minuto in sostituzione dell’indisposto Piero Pretti, si è distinto per il bel registro centrale e la raffinatezza del fraseggio. Alcune incertezze nel registro acuto nel primo atto sono state poi risolte in corso d’opera e non hanno compromesso una valida prestazione.
Luca Micheletti, che si conferma interprete credibile e raffinato, ha delineato un Monforte che si dibatte tra l’autorità del tiranno e l’amore paterno. Il timbro baritonale è duttile e ricco di armonici e la sua interpretazione dell’aria “In braccio alle dovizie” è stata uno dei momenti più applauditi della serata.
Simon Lim ha voce solida, un registro grave ben timbrato e una linea di canto impeccabile, tuttavia difetta di quel carisma che gli consenta di essere un Procida incisivo e magnetico sulla scena. Rimarchevoli le prove di Andrea Pellegrini (il Sire di Bethune) e Adriano Gramigni (Vaudemont). In un titolo che ne richede un grande impegno sulla scena, il Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi è stato, come d’abitudine, protagonista di una prova eccellente.
La replica cui abbiamo assistito, ovvero la prima ad essere trasmessa in diretta streaming sul neonato portale La Scala.tv, ha riscosso grandi consensi da parte di un teatro pressoché esaurito.