Strano che un titolo squisitamente veneziano – e quindi di riflesso squisitamente veneto – qual è Il campiello di Ermanno Wolf-Ferrari, ispirato all'omonima commedia di Goldoni, mai fosse stato dato a Verona. Un'assenza cui rimedia la Fondazione Arena, che lo porta in scena al Teatro Filarmonico in una edizione nuova di zecca, affidata al talento teatrale di Federico Bertolani, ed alla bacchetta di un veneziano doc, Francesco Omassini.
L'amore di Wolf-Ferrari per Goldoni
Non amara come I quattro rusteghi, aliena dalla satira di costume de La vedova scaltra, Gli amanti sposi e Le donne curiose, ultima e però freschissima opera teatrale di Wolf-Ferrari, Il campiello è una sorta di testamento artistico dove confluiscono non solo l'amore per la città natale, ma anche quello per Goldoni ed il teatro musicale settecentesco, per Mozart e per il Verdi di Falstaff.
Tutti elementi alla base di quest'opera corale, ironica e melanconica al tempo stesso, dove il declamato si fa tenera melodia scenica. Ambientata in un luogo – un campiello, cioè una tipica piazzetta veneziana brulicante di vita – che rievoca una Venezia fuori dello spazio e del tempo, immersa in un sogno nostalgico e gentile.
Scenografia solo in apparenza tradizionale
Si apre il sipario, e la scenografia di Giulio Magnetto ci porta appunto nel campiello cui si affacciano le dimore dei nostri personaggi, e la locanda dove alloggia lo squattrinato Cavalier Astolfi. Sullo sfondo che s'apre di tanto in tanto, però, appaiono in controscena altre figure: Pantalone ed un gondoliere che accompagna Arlecchino e Colombina; poi lo stendardo della Serenissima, ammainato alla sua caduta; quindi un vaporetto ottocentesco che sbarca due fidanzati; a seguire un vorticar di ballerini, e sgangherati suonatori in barcone.
Infine, dopo che il locandiere ha messo alle porte le tavolette antimarea, persino un tecnico che fa alzare le grandi barriere del Mose. Per finire, un turbine di moderni turisti sbarcati da una nave da crociera crea il coro conclusivo.
Venezia di ieri, Venezia di oggi
Immagini che stanno a significare il trascorrere del tempo, mentre l'anima della città rimane la stessa, intatta. Volesse il Cielo che fosse così... ma tra pizzerie e botteghe di basso valore, c'è poco da illudersi: la Venezia d'oggi è solo una folle kermesse turistica.
I personaggi goldoniani indossano bei abiti settecenteschi, non si scappa; gli altri, li hanno secondo la loro epoca. Li ha disegnati con buon gusto Manuel Pedretti, mentre Claudio Schmid si è fatto carico delle luci. Quanto alla regia di Federico Bertolani, ci piace assai: procede veloce, aggraziata e vivace, cura bene tanto la recitazione singola quanto quella collettiva, culminante nelle inevitabili baruffe e nella festosa sbornia collettiva. In altre parole, asseconda al meglio il fluire del libretto del Ghisalberti, che a sua volta fa rivivere la smagliante prosa goldoniana.
Direzione savia e calibrata
Francesco Omassini dirige con piacevole garbo e giusta levità l'Orchestra areniana, staccando tempi sempre giusti, accompagnando a dovere le voci, sottolineando bene la stupenda trasparenza strumentale della cristallina partitura. Difficile far di meglio. Si avverte un buon lavoro di concertazione della compagnia radunata, da lui portata ad un andamento collettivo vivace e spiritoso.
Le vedove pruriginose Dona Cate Panciana e Dona Pasqua Polegana sono rese con irruente comicità da Leonoardo Cortellazzi e Saverio Fiore. Molto brio e civetteria nella Lucieta e nella Gnese di Sara Cortolezzis e Lara Lagni, rispettive figlie da maritare. La 'fritolera' Orsola è resa con spiccata vitalità da Paola Gardina.
Una campione di personaggi veneziani
Il riottoso Anzoleto ed il timido Zorzeto sono interpretati con perizia da Gabriele Sagona e Matteo Roma. Biagio Pizzuti rende bene il carattere dello spiantato Cavalier Astolfi, mentre Guido Loconsolo dà corpo all'insofferente Fabrizio. Resta Gasparina, cui spetta il compito di chiudere la rapidissima vicenda con il tenero commiato di Bondì Venezia cara.
Bianca Tognocchi la canta benissimo, con indubbia dolcezza vocale; ma non rende del tutto il carattere da vanitosa ochetta che straparla e usa la “z” al posto della “s” con affettazione ridicola. Daniela Mazzucato, in questo, resta un esempio forse insuperabile.