Arthur Miller scrisse Il crogiuolo nel 1953, durante quel periodo oscuro e violento comunemente conosciuto come maccartismo, dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthy che scatenò una vera psicosi anticomunista, prolungatasi ben oltre gli anni Cinquanta.
In questo clima di isteria collettiva, fondato sulla delazione quale potente strumento repressivo nella lotta al comunismo, l’autore sceglie di rappresentare la complessità e la torbida ironia della società americana del suo tempo utilizzando il linguaggio della metafora per raccontare uno degli episodi “più strani e terribili della storia americana”: la caccia alle streghe avvenuta a Salem, in Massachussets, nel 1692.
GLI SPETTACOLI
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Il mistero dell’adolescenza, tra psicosi e vendetta
Lo spettacolo, diretto e interpretato da Filippo Dini, rispetta piuttosto fedelmente il testo di Miller, il quale aveva condito la narrazione degli atti del processo con un torbido triangolo amoroso. La leader del gruppo di giovani donne, dopo essere stata sedotta e abbandonata, scatena una tremenda vendetta, soprattutto contro la moglie di John Proctor, l'oggetto del suo desiderio.
E la lucida e a tratti delirante interpretazione di Virginia Campolucci evidenzia in maniera sconvolgente la “scoperta dell’adolescenza”, quale momento della vita in aperto contrasto con la rigida obbedienza alle regole del vivere comune.
Personaggi in cerca di redenzione
La parabola di John Proctor – nell’interpretazione di Filippo Dini – è quella di un uomo semplice, non troppo devoto a Dio né alla moglie (un'emotivamente intensa Manuela Mandracchia), ma fedele piuttosto alla ragione e alle sue convinzioni. È un uomo vile, schiacciato dal peso del senso di colpa per essersi approfittato di una ragazzina, promettendole di affrancarla dall’adolescenza per condurla all’età adulta.
Toccante l’interpretazione di Nicola Pannelli, nel ruolo del vicegovernatore Danforth: il compito di “narratore”, affidatogli dal regista, lo avvicina al punto di vista dell’autore, e quasi come chiedesse il benestare del pubblico per questo suo percorso di redenzione.
Riscatto e coerenza, infine, rappresentano l’essenza del personaggio del reverendo Hale, nell’appassionata interpretazione di Fulvio Pepe; chiamato a Salem, come “esorcista”, è il primo a rendersi conto del terrore ingiustificato che si insinua in maniera perversa nella comunità per mantenere l’ordine costituito.
Un assurdo dramma giudiziario
I quattro atti scritti da Arthur Miller, ciascuno con uno stile differente, sono condensati nella regia di Filippo Dini in un primo atto dai toni grotteschi e surreali, in gran parte troppo “urlato”. Il secondo atto diventa una sorta di dramma giudiziario, che sfocia nel tragico epilogo finale. Essenziali ed evocative le scelte a livello scenografico, tra giochi di luci e ombre capaci di restituire lo stato d’animo dei vari personaggi nel corso della pièce.
Evidente – e perdonabile – libertà registica sul finale: il sacrificio di John Proctor è sottolineato dall’intero cast che canta, con apprezzabile impegno, una versione corale di The House of the Rising Sun: e il palco è “invaso” dalla proiezione di un'enorme bandiera a stelle e strisce.
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Una tragedia (spettacolarizzata), che tiene per tre ore l'attenzione dello spettatore, spingendolo – più o meno inconsciamente, insieme ai protagonisti – all’incessante e ossessiva ricerca di un “male assoluto” sul quale proiettare le proprie paure, frustrazioni e sogni infranti.
Allo stesso modo, la vicenda di Salem dimostra la necessità squisitamente politica da parte di chi detiene il potere di riconoscere e mettere alla gogna un capro espiatorio qualsiasi, puntandogli il dito contro, per giustificare guerre, pandemie e catastrofi di ogni sorta.