Si rammenta spesso che nelle intenzioni di Cechov Il giardino dei ciliegi doveva essere una commedia «da ridere, molto da ridere», come annunciò lo scrittore stesso in una lettera del marzo 1901, allorché iniziò a concepire l’opera; ancora nel settembre 1903, a lavoro quasi ultimato, scrisse alla moglie Olga Knipper, già rientrata a Mosca, che «l’intera commedia sarà allegra, leggera».
Ed è risaputo che Stanislavskij, regista designato per il debutto, ricevette ben altra impressione dalla lettura del copione, e con lui tutta la compagnia: «al quarto atto ha pianto», riferì la Knipper al marito.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Il comico e il tragico
Dando giusta rilevanza a questa duplice anima del testo cechoviano la messa in scena di Alessandro Serra sottolinea con forza espressiva la sovrapposizione del tratto giocoso e di quello tragico; e lo fa non semplicemente variando il tono dell’esecuzione a seconda del momento scenico, ma – ben più efficacemente – mantenendo simultaneamente vivi i due caratteri costitutivi della drammaturgia. Valgano tre esempi.
Nella prima scena i personaggi esordiscono distesi sul pavimento della “stanza dei bambini”, in una luce tenue e ambigua; sono questi – si chiede lo spettatore – gli interpreti di un gioco infantile, una sorta di nascondino in penombra, o non si tratta piuttosto di una schiera di figure morte, che temporaneamente si risvegliano dal sonno eterno per rappresentare l’ultimo guizzo delle loro esistenze?
Così allo sguardo dello spettatore i due significati si sovrappongono e interferiscono. Quando poco dopo Gaev pronuncia il suo farsesco monologo in gloria dell’armadio, vi precipita all’interno e vi rimane chiuso, mentre ogni altro personaggio si ritrae fuori scena. Una trovata che a primo impatto asseconda l’aspetto burlesco del testo; ma al tempo stesso l’uomo sembra inghiottito da un feretro da cui filtrano remote le sue ultime parole: è ancora un effetto di collisione a ribaltare il comico per mostrarne il doppio tragico.
E poi la festa con cui si apre il terzo atto: un momento irreale, che ritrae l’urgenza disperata e incosciente dei protagonisti di testimoniare a sé stessi che nulla sta accadendo proprio mentre tutto precipita («Abbiamo chiamato un’orchestra, ora chi la paga?» si domanda con lamentoso senso di realtà Varja). In quegli istanti la sorte del giardino viene decisa altrove: i padroni stanno per abbandonare definitivamente la loro casa e il loro posto nella società.
La rappresentazione della festa somiglia qui ad un funerale, un quadro lugubre e lento che ancora una volta fa combaciare la felicità e la decadenza, il rito e la morte.
Le ragioni del testo
È significativo chiedersi quale fossero per Cechov gli elementi destinati a procurare la risata. Certe situazioni disseminate nella drammaturgia sono evidentemente comiche – ad esempio quando Trofimov fa una scena madre e subito dopo rovina per le scale, o quando Piscik inghiotte un intero barattolo di medicine per dimostrare che sono innocue – e tuttavia la presenza di queste sporadiche “gag” non basta a spiegare la definizione di commedia che l'autore dichiara e rivendica per quest’opera.
Dunque è proprio la materia narrativa – il grottesco declino dell’aristocrazia parassita, incapace di sopravvivere alla storia, e il paradossale trionfo del parvenu Lopachin, – ad imprimere secondo l’autore il carattere di commedia al testo.
Ora, la risata ha bisogno di un contesto e di un punto di vista; se Cechov asserisce che quest’opera è una commedia, plausibilmente ritiene che il punto di vista dello spettatore coincida col proprio. Ljuba e Gaev, i due fratelli proprietari del giardino, sono disegnati con piccole sfumature caricaturali, lei incapace di gestire anche il denaro della sua borsetta, lui infantile e fissato col biliardo, entrambi ottusi dinanzi alla pragmatica razionalità di Lopachin.
La loro uscita dalla scena teatrale e sociale è necessaria perché possa realizzarsi una società migliore («Comincia una nuova vita» esclama la giovane Anja poco prima di lasciare per sempre la casa; «Addio, vecchia vita!» aggiunge poco dopo).
È forse questa questa una delle ragioni per cui, rappresentata in altre epoche e in altri contesti, la vicenda del Giardino è diventata spesso un dramma puro: quando non condivide il quadro storico di riferimento, quando non partecipa a quelle ragioni epocali, lo spettatore può solo simpatizzare con gli Andreev, fragili figure di mezz’età costrette allo sfratto da parte di un giovane danaroso e insensibile ai sentimenti. Il cambio di prospettiva ridisegna la percezione emotiva, l'empatia inibisce la risata e annulla così la dimensione comica dell'opera.
Quadri viventi
Il lavoro di Serra sublima in segno estetico il portato emozionale del testo, sottraendo pathos alla parola per trasportarlo nell’immagine. Così sulla scena si compongono quadri viventi che rendono leggibile il sottotesto intimo della scrittura cechoviana, tramutando il non detto in ipostasi visuale.
Ad esempio – ed è solo il caso più evidente – la separazione di Ljuba dalla casa familiare viene resa con un poetico effetto di sdoppiamento della figura: rimasta sola su una sedia, in una scena dorata come un quadro di Klimt, la donna si alza per andar via; ma la sua ombra rimane seduta, come se fosse la sua giovinezza – o la sua anima – ad esser trattenuta dalle mura, e in definitiva dalla vita ormai vissuta.
Le figure di Cechov – come osserva Peter Szondi nel suo famoso saggio sul dramma moderno – si nutrono della rinuncia all’azione e al dialogo, perpetuamente rivolte verso un passato che rende immobile il presente.
Ed ecco allora che sulla scena i personaggi restano più volte congelati entro armoniosi gruppi in posa fotografica a celebrare la propria dissolvenza; anche perché quel presente che per loro esiste solo per ricordare il passato – senza azione, senza dialogo – assomiglia ad un polveroso album di foto di famiglia. In quelle immagini ferme s’insinua il sentimento della fine; e in tutta libertà torna alla mente la poetica di Kantor, con la macchina fotografica che è strumento per fissare la morte, e con certe atmosfere oscillanti tra il giocoso e il funereo.
Gli attori
Tutto questo apparato minuzioso e delicato di gesti e di trasparenze semantiche – così lontano dalla potenza primordiale del Macbettu con cui Serra aveva vinto l’Ubu nel 2017 – non potrebbe attivarsi senza un cast di adeguata levatura; e l’esecuzione risulta in effetti pertinente alle intenzioni.
Fra gli interpreti ci limitiamo a citare Valentina Sperlì, con la sua Ljuba regale e decadente; Massimiliano Poli, un compiaciuto e fatuo Piscik; Bruno Stori, per un Firs magistrale che porta sulle spalle il peso degli errori altrui; Chiara Michelini, un’originale Charlotta lieve e intraprendente; e infine Marco Sgrosso: il suo irrequieto Lopachin è come un ultimo motore acceso in un mondo oramai spento.