Alessandro Serra, curatore integrale dell’allestimento, enfatizza lo studio del personaggio sotto il profilo umanistico-esistenziale, con un taglio critico storico-sociale appena accennato a far da sfondo.
Simile ad un cumulo di memorie mal riposte, anche il giardino dei ciliegi va incontro al suo destino, trascurato da padroni poco accorti, effimero come la mole di speranze, ideali e buoni propositi inevasi nel corso di un’intera esistenza.
Alle prese con un classico del Novecento dalla complessa lettura interpretativa, il regista Alessandro Serra, curatore integrale dell’allestimento de Il giardino dei ciliegi (drammaturgia, scene, luci e costumi) enfatizza lo studio del personaggio sotto il profilo umanistico-esistenziale, concedendo minor spazio al vero naturalistico, con un taglio critico storico-sociale appena accennato a far da sfondo.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Ne deriva una resa scenica sentita e struggente, che pur senza nulla sottrarre alla rigorosa concatenazione logica delle azioni, incentra la propria indagine sul senso di vuoto, l’assenza di significato, l’inevitabile nostalgia di persone, cose ed eventi vivi e presenti soltanto nella ricostruzione immaginosa che compone la coscienza individuale.
Come in un’istantanea del tempo andato -sembra suggerire la presente rilettura- non resta che bloccare, tentare di fissare i frammenti di memorie felici così sottratti al logorio incessante del divenire.
A ciascuno il suo giardino dei ciliegi
Il mezzo fotografico, riutilizzato quale metafora del realismo di base, rivive in ogni momento nel congegno scenografico, costituito da un’enorme sala monolitica coincidente con le dimensioni del palcoscenico e rivestita su pareti e pavimento da fondali monocromatici paragonabili ad un set per riprese.
Ottenuto con successo l’intento di focalizzare l’attenzione su parole e fatti e coagulata la vicenda in un atto unico senza interruzioni, lo spazio vuoto della scena offre l’occasione per frequenti movimenti di gruppo e dei singoli, impegnati a tracciare diagonali, alle prese con piroette, passi di danza, giochi di prestigio, sovente assembrati in pose da fermo immagine, sbiadite testimonianze di epoche ormai trascorse.
La desolazione dei luoghi dai pochi oggetti significativi (l’armadio centenario testimone delle glorie di famiglia entro cui si rifugia il possidente debosciato Gaiev per sfuggire alle responsabilità) stride con la gaiezza dei padroni di ritorno a casa dopo un lungo viaggio, il rientro gioioso nella “stanza dei bambini” poco si accorda con le fattezze dei volti trasfigurati dai segni del tempo.
Fatuo emblema identitario da generazioni e prima vittima dell’erosione operata dal mutamento storico, perfino il giardino dei ciliegi, del tutto eliminato dalla scenografia, rivive solo nelle descrizioni estatiche dei personaggi: la prosaicità del quotidiano nulla concede alle calde illusioni che permettono di stare al mondo.
Danzando gioiosi verso la fine
La maestria interpretativa della prova sorretta dall’intero cast attoriale esalta in massimo grado l’indagine introspettiva, che procede a ritmo sostenuto con un’equilibrata alternanza di brio e pathos priva di cedimenti, capace di catturare emotivamente ad ogni passo fino al noto scioglimento.
L’intensità delle parole pronunciate in modo da tracciare in poche battute drammi e desideri degli individui trova perfetto corrispettivo nel panorama acustico- sonoro, dall’elevata rilevanza simbolica, tra rumori domestici che sanno di casa, sospiri, esaltanti giri di valzer e il famoso clangore della corda spezzata (l’impietoso procedere degli ingranaggi della Storia viene identificato in un argano cui sono appesi gli effetti personali da portare via nel finale).
Campeggiano su tutto, agli antipodi per valenza di significato e ruolo rivestito nella trama, la feroce smania di accumulo, la sfrenata scalata sociale del parvenu Lopachin (Leonardo Capuano), culminante nei rabbiosi colpi di scure inflitti agli alberi; cui fa da contrappunto, d’altra parte, l’inutile fedeltà del cameriere Firs (Bruno Stori), ultimo disperato rappresentante di una generazione che con lui conclude i suoi giorni.