Nel 400° anniversario della nascita di Molière, il giovane regista Leonardo Lidi dirige un nuovo allestimento de Il Misantropo, un testo che ancora oggi, a quasi quattro secoli dal suo debutto (1666), rappresenta una lucida analisi degli aspetti più aberranti della società, ma soprattutto la speranza di un uomo ridicolo, che solo grazie a una concezione (alquanto distorta) dell’amore, può aspirare a migliorare, invano, la propria tragica condizione esistenziale.
Dopo La casa di Bernarda Alba, ritorna in questo allestimento la figura di Lui, interpretato da Riccardo Micheletti. Con il volto rigorosamente coperto da un passamontagna, introduce i personaggi in scena, sulle note di Clair de lune, di Debussy, e osserva da una distanza molto ravvicinata quello che succede sul palcoscenico, facendo all’occorrenza da apripista agli allievi della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, chiamati a rappresentare (anch’essi incappucciati) scene di vita mondana.
La tragedia di un uomo ridicolo
Christian La Rosa risulta credibile nel ruolo di Alceste, aristocratico misantropo: un uomo claudicante che si muove con l’ausilio di un bastone e di un tutore fissato a uno degli arti inferiori. Inserito nella vita mondana per nascita, egli rifiuta di adeguarsi alle convenzioni sociali e alle smancerie, ma è innamorato della giovane ed emancipata Celimene (una vibrante Giuliana Vigogna), che lo ricambia, ma non intende assecondarlo nel suo assurdo proposito di isolarsi dal mondo.
Interessante lo spazio scenico concepito da Nicolas Bovey: un fondale nero semicircolare, come fosse la parete di una prigione, con un’unica apertura dalla quale entrano in scena tutti i personaggi (un ingresso che richiama alla memoria la serratura animata della porticina attraverso la quale Alice si ritrova nel Paese delle Meraviglie, ndr).
E in questo spazio, immenso, ma claustrofobico, con il pavimento riempito di ghiaia, i personaggi si muovono senza una direzione precisa, oppure ossessivamente in circolo, come Alceste durante una festa a casa di Celimene.
Nostalgia della giovinezza
I momenti più toccanti e poetici dello spettacolo sono affidati ad Alfonso De Vreese, che interpreta prima il sonetto di Oronte, dedicato a Celimene (composto da Nicolò Tomassini, ndr); successivamente, esegue ad libitum con la chitarra una struggente versione di Guarda che luna, di Fred Buscaglione. Nello stesso frangente, Francesca Mazza interpreta un intenso monologo, rivolgendosi a Celimene: nelle sue parole risuonano l’amara nostalgia della giovinezza ormai passata e della bellezza sfiorita.
Ulteriore elemento di novità nell’allestimento è il ruolo di Filinte, la persona che meglio comprende il tormento interiore di Alceste, affidato all’esperienza di Orietta Notari, inedita interprete di una passione femminile non corrisposta nei confronti di Eliante (Marta Malvestiti).
Un finale aperto
Molière, attraverso le parole di Alceste, ammonisce i cortigiani dell’epoca, colpevoli di “non aver difeso la parola, l’unica cosa che ci distingue dal resto del pianeta, ma di averla svenduta in cambio di dozzinali apprezzamenti”. Un monito valido per gli uomini e le donne delle nostre società, a distanza di quattro secoli.
Per questa ragione, il finale dello spettacolo non è risolutivo, ma rimane aperto, senza generare un cambiamento nel carattere difficile da smussare di Alceste: la sua ultima battuta, infatti, è un melanconico “ti aspetto qui”, rivolto a Celimene; mentre il protagonista sprofonda, ancora una volta, nella sua solitudine.