Achille Campanile era molto avanti, si direbbe oggi con linguaggio pseudomoderno; ed è il caso di fare particolare attenzione al linguaggio con cui se ne vuol parlare, perché il linguaggio è proprio il centro del suo manifestarsi, insieme con la traduzione fisico-corporea che si riesce oggi a restituire su un un palcoscenico.
Di fronte ai livelli plurimi di gioco innestati fra le espressioni, le parole, le storie dentro le storie che durano a volte anche un solo secondo, altre una intera trama, viene in mente subito un'antica radice etimologica anglosassone che accomuna il senso "ludico" al gesto del saltellare: è un'immagine che non abbandona mai lo spettatore, di fronte a questo “Il povero Piero” della compagnia Teatro In Fabula e diretto da Aniello Mallardo, ovvero, potrebbe dirsi, ai profili vari ed eventuali di vanità/alterità e superficialità nei comportamenti umani.
Piero viene colto da morte (apparente), e dall'evento, soprattutto per le particolari disposizioni testamentarie (l'annuncio della sua morte sarebbe dovuto avvenire solo dopo i funerali) conseguono le evidenze di una folta schiera di sentimenti diversi e spesso come dire, convenzionalmente poco consoni all'evento luttuoso, sia per ipocrisia che per paradossale inclinazione al sotterfugio.
Ma la trama è soprattutto un mezzo per saltellare, appunto, con lo stesso spirito ludico fra il Senso ed il sotteso gioco linguistico: c'è satira pungente, ci sono situazioni esilaranti, maschere tanto grottesche da sembrare reali, così come riflessioni taglienti in intensa salsa agrodolce sul senso della morte e della vita (come in un abbraccio, così principia e termina lo stesso racconto: colui che vive, semplicemente “sta fabbricando un morto” - e “La vita e la morte sono una cosa sola, come il fiume ed il mare”): e quanti, leggendo Campanile, non sentono echi nemmeno tanto lontani di moderni Bergonzoni...?
Tutto questo, si può ben immaginare, non può essere semplice da portare sulla scena: eppure all'Elicantropo si è materializzato un sorprendente saltello continuo fra il turbinio ritmico della scrittura e degli attori, dipinto anche sugli stessi volti dei personaggi, ed hanno preso corpo e respiro anche le interpunzioni sul plot con i giochi di parole intorno alle vicende come sulle minuzie (su tutti il sublime “Grazie, arcavolo!”), rese con un effetto surreale molto vivido, da sembrare quasi una tela di Joan Mirò, sulla quale di tanto in tanto far apparire anche il gioco d'ombra colorato del racconto delle altre stanze.
Compito non facile, realizzazione impeccabile. In particolare, Raffaele Ausiello e Stefano Ferraro hanno raggiunto un sincronismo ed una precisione davvero poco comune e molto coinvolgente, Giuseppe Cerrone ha sostenuto un Piero costantemente diviso fra l'intimista e l'indole allo scherno, ed Alessandra Mirra ha dato prova di una espressione interna ed esterna sempre aderente al personaggio con una concentrazione naturale ed insita in ogni movimento; e tutti nel loro continuo stimolo, nel funambolico inseguire il serio a cavallo di un destriero faceto, sembravano interpreti costanti di una delle riflessioni d'apertura (“La vita ci reclama coi suoi doveri: la vita urge”).
Mi siano concesse, con altrettanta effervescenza, le mie prime 5 stelle.