Una platea folta e visibilmente partecipe è quella che sta accogliendo, in queste settimane, Il seme della violenza – the Laramie project, spettacolo diretto da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. La sceneggiatura, tradotta in italiano da Emanuele Aldrovandi, è a cura di Moisés Kaufman, autore che ha spalancato la porta su una realtà complessa e stratificata come quella della cittadina di Laramie nel Wyoming, Stati Uniti, all’indomani dell’omicidio di Matthew Shepard, un ragazzo di ventun anni.
La cronaca mobilita lo spettacolo
Siamo nell’ottobre del 1998 quando, legato a una staccionata nei pressi di Laramie nello stato del Wyoming, viene ritrovato il corpo moribondo d’un ragazzo; era lì da solo e in fin di vita da oltre diciotto ore. La stampa e i media iniziano la caccia alle informazioni e pure la compagnia newyorkese diretta da Moisés Kaufman si attiva per andare a intervistare le persone che abitano e vivono la cittadina di Matthew.
L’intenzione è cercare di scavare a fondo in una realtà spesso ostinatamente chiusa su stessa e poco aperta a tutto ciò che sconfina in forme diverse di emotività e di pensiero. Viene presto in chiaro, infatti, che il ragazzo derubato e picchiato è stato vittima di violenze da parte di due suoi coetanei semplicemente perché omosessuale.
Le scoperte dalle interviste
Avvalendosi d’una scenografia semplice che vuole simulare l’interno della palestra di una scuola – con delle panche di legno a mo’ di spalti – si giunge alla conoscenza di svariati e molteplici personaggi: dagli amici di Matthew al barista, testimone chiave che l’ha visto per l’ultima volta, ai professori universitari e così via. Ciò che emerge progressivamente è un clima soffocante non solo per l’intolleranza dei più nei confronti delle persone con diverso orientamento sessuale e di genere, ma anche – ed è uno dei punti di forza dello spettacolo – per l’omertà dei diretti interessati, che spesso si nascondono e si fingono contenti di una vita “normale”, per timore delle conseguenze.
La scelta dei genitori
Quando si incomincia a parlare di pena di morte per i due colpevoli – Matthew, nel frattempo, era deceduto dopo cinque giorni in ospedale, a seguito delle gravissime lesioni riportate – i signori Shepard, derubati del loro primogenito, si oppongono. Ed è qui, verso la fine della messinscena, quando lo spettatore si stava domandando perché non entrassero in gioco anche i genitori, che subentra il padre, interpretato da un intenso Ferdinando Bruni, con un discorso toccante, viscerale e pubblico a un tempo.
Le parole, che ci narrano la personalità del figlio, al momento opportuno sanno essere misurate e ponderate. Evitano così in un solo colpo, sia di dar sfogo all’impulso – peraltro comprensibile – dell’odio iracondo che chiede la morte in cambio della morte, sia di scivolare in una misericordia che puzzerebbe – date le circostanze – di un buonismo vacuo.
Alla fine, viene scelta la pena dell’ergastolo per entrambi i criminali. Nel 2009, con il presidente Barack Obama, viene promulgato il Matthew Shepard Act, che espande il reato connesso ai crimini di odio a motivazioni legate al genere, all'orientamento sessuale, all'identità di genere e alla disabilità.
Un cast impegnato e commosso
A conclusione dell’esibizione, gli otto attori si fanno avanti per il meritato applauso che li investe in pieno.
Ci tengono a far sapere che vogliono dedicare le prossime repliche a Orlando Merenda, un ragazzo di diciott’anni che si è di recente ucciso buttandosi sotto un treno, presumibilmente a causa di bullismo omofobico. Che questo spettacolo, il teatro e l’arte in generale possano smuovere qualche coscienza per estendere i diritti civili e politici a quante più persone possibile; tale è il proposito declamato da questo cast, che non ha pudore di mostrarsi politicamente impegnato e a tratti commosso; qualcuno sparisce dietro le quinte con lacrime agli occhi.