Grande attesa per la rappresentazione integrale del Trittico di Giacomo Puccini per la regia della stella internazionale Damiano Michieletto con l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma diretti dal giovane Daniele Rustioni, già ammirato a Caracalla con Bohème un paio di stagioni fa. I tre atti unici, concepiti per essere rappresentati insieme, pur nella diversità di argomento e di ambientazione, sono l’espressione di un felice momento creativo di Puccini che, attenuando in parte il suo melodismo caratteristico, si inserisce con piena consapevolezza nella temperie musicale dell’epoca.
Nel Tabarro la scena è costituita da moderni containers sovrapposti che bene rappresentano l’ambiente portuale del dramma, il maturo padrone Michele è alle prese con il lutto per il figlio morto e con l’infedeltà della giovane moglie Giorgetta che lo tradisce con lo scaricatore Luigi. Il cupo affresco rappresenta una umanità dolente oppressa dalla fatica senza troppe speranze per il futuro; il brindisi di fine lavoro, con birra in lattina, non ha niente di festoso e la danza che propone il suonatore di organetto è insieme grottesca e algida. La scoperta del tradimento porta al dramma: Michele uccide Luigi e nasconde il cadavere sotto il tabarro che nei tempi felici, quando la coppia era ancora unita dal figlioletto, custodiva in un abbraccio la serenità familiare. Ora quello stesso indumento (qui una giacca da lavoro) svela la tragedia alla disperata Giorgetta. La musica rappresenta con efficacia il dramma verista, il tema della Senna iniziale è pienamente impressionista e descrive efficacemente un ambiente di nebbie e afrori, il canto della protagonista e delle altre donne ricorda spesso le melodie di Mimì, mentre quello degli uomini è quasi un declamato espressionista che sembra anticipare le durezze del Wozzeck.
Dopo l’applauso, senza soluzione di continuità, a sipario aperto, cambia la scena: i containers si trasformano in una cella monastica e in un lungo lavatoio. Siamo nel convento dove vive segregata Suor Angelica da sette anni, da quando ha avuto un “figlio della colpa” che le è stato sottratto ed è stata costretta alla clausura per riscattare la vergogna in cui ha trascinato la nobile famiglia di origine. La meschina vive con le consorelle tra routine e preghiere, quando giunge la gelida Zia Principessa a chiedere una firma per una questione familiare. Angelica ripiomba allora nel dramma del figlio perso e ne chiede notizie alla perfida dama. Questa, mentendo, le dice che il bambino è morto e la invita a pregare e rassegnarsi. La disperazione coglie Angelica che decide di suicidarsi bevendo una pozione di erbe velenose per raggiungere il figlio perduto e mai conosciuto. Ma la coscienza di commettere un peccato mortale la fa pentire in extremis, chiede allora in punto di morte il perdono alla Vergine e avviene il miracolo annunciato da un coro di Angeli, nello sfolgorio di una luce improvvisa appare un bimbo che, sospinto dalla Vergine, va verso la moribonda. Qui le melodie e i cromatismi di Bohème sono più espliciti, oltre che nel canto della protagonista e delle altre suore, anche nei numerosi interventi corali. La perfida Zia è annunciata da un leitmotiv quasi atonale che sottolinea la sua malvagità. Nella versione di Michieletto, Angelica, in un impeto di disperazione, distrugge la sua cella e aggredisce la zia che rovina in terra. Il successivo canto Senza mamma è preceduto da un intervento orchestrale che ricorda quello dell’alba romana di Tosca dove troviamo il Puccini più amato.
Dopo una lunga pausa è la volta di Gianni Schicchi. La scena è ancora costituita dai containers che sono aperti a rivelare l’interno di una casa borghese, dove è appena morto il ricco Buoso Donati. I numerosi parenti non sembrano particolarmente addolorati della perdita, sono piuttosto preoccupati dell’eredità e precipitano nella disperazione quando scoprono che il defunto ha lasciato tutti i suoi averi ai frati. Decidono allora di ricorrere a Gianni Schicchi, noto faccendiere. Questi propone di sostituirsi al defunto, della cui morte nessuno è stato informato, e di ingannare il notaio facendo un nuovo testamento. Ma la burla è in agguato, quando il notaio si fa dettare le volontà dal falso Buoso Donati, Gianni Schicchi si fa nominare erede della parte più importante dei beni, lasciando ai parenti solo le briciole del patrimonio. L’atmosfera farsesca è ben sottolineata da una musica frizzante ed esplosiva, piena di autocitazioni; anche le preghiere per il defunto, nella nenia lamentosa dei parenti, suonano false e ipocrite, il declamato è quello delle commedie musicali e le piccole esplosioni di suono contrappuntano gli eventi comici con efficacia. E’ qui presente un’aria vera e propria, O mio babbino caro, che suscita anche stavolta applausi a scena aperta.
Grandi consensi di pubblico alla fine delle tre ore di musica, apprezzamenti per la regia che, con ambientazione e costumi moderni, sottolinea la varia umanità del porto nel Tabarro e nel convento di Suor Angelica e vivo apprezzamento per gli interpreti tutti. Grande prestazione di Roberto Frontali che passa con disinvoltura dal cupo Michele al brillante Gianni Schicchi, bravissima anche Patricia Racette coinvolgente Giorgetta e commovente Angelica. Gelida e scostante Violeta Urmana nel difficile ruolo della Zia, brillante la Zita di Natascha Petrinsky, grande prova anche di Anna Malavasi in tre ruoli di grande impegno nelle tre opere. Orchestra e Coro precisi, ben diretti da Daniele Rustioni.