Avevamo molte aspettative per l'arrivo di Davide Livermore al Festival Verdi, con la sua nuova rilettura scenica de Il trovatore – che giunge dopo quella misurata di Elisabetta Courir (2016) e quella irrealistica di Robert Wilson (2018) – ma quelle aspettative sono state in parte disattese. Vediamo perché.
Intanto, lo spettacolo costruito dal regista torinese ha solo l'involucro esterno di theaterregie, con la sua immersione in un mondo distopico e apocalittico – una sorta di Gotham City – fatto di desolate periferie dove si vive fra copertoni e carcasse d'auto, sotto palazzi in rovina o arcate di viadotti, vedendo sullo sfondo il lontano skyline d'una città che alla fine andrà a fuoco.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Tante situazioni inaspettate
E dunque vai colle divise da guerriglieri, mitra in spalla. Vai con il Conte di Luna in elegante completo, spietato boss che dà ordini col telefonino. Vai coll'accampamento degli zingari trasformato in uno affollato circo, dalle inquietanti figure che paiono uscite da Freaks di Tod Browning (ma c'è anche la Gelsomina felliniana de La strada). Vai col tramutare il cortile claustrale in un ospedale di guerra gestito da sollecite suorine infermiere, nei cui letti si celano i partigiani di Urgel.
Un misto di qualche idea nuova e noiosi dejà-vu, riciclando il regista torinese da un po' di tempo le stesse idee, che girano girano ed ahinoi non sempre funzionano come dovrebbero. Un po' come in Attila e nel recente Macbeth, spettacoli scaligeri di analoga concezione e dai contesti interscambiabili con questo Trovatore.
Ma in fondo in fondo, domina la tradizione
Ma a ben vedere l'anima, l'essenza interiore della regia di Livermore – coadiuvato qui da Carlo Sciaccaluga - risulta tutto sommato abbastanza consueta e tradizionale, in certi punti persino didascalica: con le giuste entrate ed uscite, con inerti a solo, tepidi duetti e curiosi fermi tutti. Nulla di nuovo sotto il sole. Efficacissimo è nondimeno il continuo ricorso ai cangianti video su led wall elaborati dallo studio D-Wok, mentre l'arido impianto scenico è del team Giò Forma; e le luci di Antonio Castro.
Il suo solito team, insomma. Immagini fascinose che fungono non solo da sfondo scenico, ma anche da tumultuoso detonatore dei sentimenti dei personaggi e delle situazioni. Eccoci dunque sotto cieli ora stellati, ora attraversati da nubi tempestose, ora saturi di fiamme, ora schizzati dai lapilli di eruzioni vulcaniche. Quanto ai costumi, se Anna Verde ci ha proposto ahinoi le solite divise fascistoidi, in compenso si è sbizzarrita – anche con trucco e parrucco – vestendo la variopinta troupe circense.
Le “scenografie musicali”
Orchestra e Coro sono del Teatro Comunale di Bologna, che coproduce l'impresa. Non ci paiono però all'altezza del solito standard. Sul podio sale Francesco Ivan Ciampa, che se pur concerta con la solita sicurezza e maestria, non sembra avere della partitura verdiana una visione lucida e idee coerenti.
Qui spinge con eccitato impeto, là ecco che rallenta: «Il balen del suo sorriso», per dire, è di catatonica lentezza. In compenso, sostiene con raffinata tessitura strumentale Leonora, allorché lancia in volo il suo «D'amor sull'ali rosee». Non abbiamo insomma ravvisato ovunque il concretizzarsi di quelle “scenografie musicali” che Ciampa teorizza intorno ad ogni personaggio, come afferma nelle note di sala.
Un cast fra alti e bassi
Assente per improvvisa defaillance Franco Vassallo - che peraltro la sera prima a Busseto ci aveva donato un invidiabile Falstaff, forse è questione di affaticamento – l'ha sostituito di corsa come Conte di Luna Giovanni Meoni, già scritturato per la recita finale. La voce c'è, salda, piena e tornita, lo stile e la definizione del carattere, un po' meno; ma la figura scenicamente regge.
Riccardo Massi ripresenta il suo Manrico muscolare e impetuoso, ma alla fine dai contorni uniformi; si lancia nel canto con facilità, i legati riescono benissimo, la bella voce corre per la sala, e la riempie tutta; ma sentiamo poche sfumature, ed il fraseggio non è colorito a dovere.
Francesca Dotto elabora una Leonora tutta sui generis, da belcantista; e ne fa una figura delicata e gentile, dal timbro soave e dall'espressione patetica. Non possedendo la vocalità tesa e proiettata delle rivali, sopperisce con un canto raffinato, con un'emissione morbida e duttile, con un fraseggio di aristocratica valenza che svetta anche nelle limpide agilità.
Un' Azucena buona, ma da affinare
Vince e convince l'Azucena di Clementine Margaine, vocalmente travolgente e prodiga - più al centro che al basso, in realtà – oltre che scenicamente vigorosa; ma il personaggio crescerebbe di statura se messo meglio a fuoco. Roberto Tagliavini è un Ferrando imponente e sanguigno, ma dal procedere nobile e melodioso. Buoni gli interventi di Didier Pieri (Ruiz), e di Carmen Lopez (Ines). Maestro del Coro, Gea Garatti Ansini.