Un uomo sdraiato a terra, di spalle. Un altro uomo dall’altra parte del palco, che sorseggia un caffè. Una poltrona coperta con un lenzuolo. Un uomo, in lontananza e nell’ombra con il volto coperto da una maschera, quella di un topo. Fili che ciondolano sul palco, una mezza luna che regala una luce, lieve quasi impercettibile.
Spoglio, silenzioso, immobile: potrebbe essere un quadro realizzato da Shakespeare, Beckett o una inquadratura di David Lynch se fossimo al cinema. Invece è Livia Gionfrida che ci porta immediatamente sulle tracce della poetica di Franco Scaldati. E le sue.
Si sa, i Poeti non dormono mai
"Finìu a pandemia?" si domanda retoricamente l’anziano e ultimo Poeta rimasto vivo dopo aver superato, oltre la pandemia, anche la guerra. Muove passi e silenzi per spiegare questa sua esistenza, vissuta ora in un condominio qualunque, disastrato e senza tempo, in compagnia di sparuti compagni di viaggio che via via prendono forma dalle sue parole, quelle taglienti e surreali del sarto di Palermo (l’appellativo di Scaldati), dette e non.
Il ruolo del Poeta giostraio, affabulatore, traghettatore di anime è affidato a Melino Imparato, amico storico di Scaldati e fedele compagno di numerose avventure teatrali. Si comprende perché la Gionfrida lo abbia voluto in scena: di Scaldati ne conosce intimamente la matrice poetica, è un mestierante fuoriclasse e ha un’immagine di forte impatto visivo e uditivo: racconta la storia in siciliano e poco importa se il siciliano non si conosce perché è in grado di aprire le porte del sapere ancestrale che rende il linguaggio universale.
Melino, il colto Poeta muove i fili immaginari dei personaggi in scena, vittime come lui dei disastri della vita ma che, a differenza sua, non hanno la Luna dei sognatori a cui ambire. Si burla del giovane ‘muto’ chiacchierone (uno strepitoso Paride Cicirello) mentre gli interrompe il flusso di discorsi e le canzoni di Massimo Ranieri per incoronarlo Macbeth e dargli la possibilità, per una volta, di sperimentare una vita diversa: gli regala il potere, quello della parola, ma anche la pazzia.
Il Poeta parla ad un pubblico che non sa ascoltare attraverso la lavandaia: una donna dismessa, che è rimasta incinta del ‘muto’ forse a seguito di una violenza o semplicemente in un momento di soggezione erotica. Pronuncia parole forti la lavandaia, qualcuna sconcia che esibisce come trofeo, il riscatto di una donna che in altri tempi, additata come strega, sarebbe stata bruciata. Ma il fuoco ce l’ha dentro la bravissima Oriana Martucci e esce potente quando, investita del ruolo di Lady Macbeth, dalle scale della sottomissione sale e governa la scena.
Poi c’è lui, Daniele Savarino, il Topo, l’essere che sopravvive anche ai disastri. E’ bravo Savarino a vestire i panni dell’archetipo dei bisogni sociali prima di quelli individuali, lo specchio per la matrice marcia dell’uomo che si nasconde pure da se stesso, l’animale che balla perché se parlasse non direbbe nulla di buono per chi non vuole ascoltare. Ed è proprio con lui che il Poeta si lancia in una danza sfrenata, un rituale affinché le qualità del topo vengano accolte il più possibile da uomini di buona volontà.
Occupa il suo tempo tra realtà e finzione l’attore Melino perché si sa, i Poeti non dormono mai. Loro lo sanno che se non ci fossero, chi cercherebbe di scoprire quali parole ancora si nascondono nella luce oscurata della Luna?
Uno spettacolo di rara godibilità e riflessione
Tutto questo è opera della sensibilità e professionalità di Livia Gionfrida. Lei ha accolto la poetica di Scaldati e l’ha miscelata con la sua, creando uno spettacolo di rara godibilità e riflessione. L’emozione a fine spettacolo è il risultato impressionante di questa esperienza. Per questo vanno ringraziate Emanuela Dall'Aglio (scene e costumi), Serena Ganci (consulente del suono), Giulia Aiazzi (assistente alla regia). C’è la certezza che con queste premesse, lo studio di Livia Gionfrida su Franco Scaldati possa raggiungere ancora altri livelli di profondità e spessore.
E l’augurio è quello di mantenere sempre accesa la candela sull’Arte:
Breve cannila, spegniti
…’n’ombra’ncammin’ è vita;
un povero attore ca, vanitoso, s’agita ‘palcoscenico…
…e un cuntu narratu’n idiota.