“Kohlhaas”, monologo interpretato da Marco Baliani, scritto a quattro mani con Remo Rostagno ispirandosi alla novella omonima di Heinrich von Kleist. Già andato in scena nel 1992, sempre nella rassegna collaterale alla stagione di prosa maggiore del teatro bergamasco, “Kohlhaas” è uno dei primi testi di narrazione nel quale ciò che conta, ciò che realmente affascina, ciò che sorprende è la potenza del racconto di un uomo solo in scena, seduto, immobile, senza l’ausilio di altri orpelli scenografici, senza musiche che accompagnino la sua performance quasi esclusivamente verbale. Marco Baliani narra, rivivendola insieme al pubblico, la vicenda tragica del personaggio kleistiano, allevatore di cavalli nella Germania del Cinquecento.
Michele Kohlhaas è un uomo giusto. Michele Kohlhaas ama la sua vita, la sua famiglia, i suoi cavalli. Michele Kohlhaas si sente in pace con se stesso e con il mondo quando sa di essere parte di un cerchio di giustizia – divina o terrena - che circonda ogni essere vivente. Un giorno il barone von Tronka commette un sopruso nei suoi confronti, sottraendogli con l’inganno i suoi due puledri prediletti, mentre si sta recando alla fiera per vendere il bestiame.
Al ritorno da Dresda, Kohlhaas scopre che il barone non voleva acquistare i cavalli, ma li ha affamati e maltrattati per tre settimane, ha fatto picchiare a sangue il servo che avrebbe dovuto prendersi cura degli animali e non è intenzionato a risarcire l’allevatore dopo quanto successo. Kohlhaas chiede alla legge degli uomini che gli sia resa giustizia, ma il barone è troppo potente perché un processo possa essere istruito contro di lui. Nemmeno l’imperatore sembra disposto a esercitare la propria influenza, nonostante la moglie di Kohlhaas sia morta nel tentativo di fargli pervenire una supplica. Il mondo di Kohlhaas si è dissolto, il cerchio di giustizia in cui si sentiva protetto e in pace è andato in frantumi e l’allevatore si trasforma da vittima in carnefice, all’inseguimento di una vendetta contro un uomo che non raggiungerà mai.
Diventato ormai un simbolo per tutti i diseredati della regione, raduna un esercito di disperati per attaccare tutte le città disposte a offrire protezione al barone von Tronka, massacra i loro abitanti, mette a ferro e fuoco ogni oggetto incontrato sul suo cammino, infliggendo una sconfitta cocente perfino all’esercito del Principe di Sassonia. Arrestato e condannato a morte per quanto commesso, pur avendo la possibilità di salvarsi in cambio di un favore nei confronti di un nobile come il barone von Tronka, Kohlhaas decide di affrontare a testa alta la propria condanna, che proviene da una sorta di giustizia terrena, e ricomporre il cerchio infranto dalla catena di sopraffazioni subite nella sua vita. Una luce gialla avvolge Marco Baliani, vestito di nero, seduto su una semplice sedia al centro del palcoscenico. Non serve nient’altro per dare vita allo spettacolo, se non la vivida musicalità delle parole.
Grazie alla sua straordinaria mimica, alla sua grande presenza scenica, alla propria carica affabulatoria, l’attore-autore riesce a interpretare tutti i personaggi del racconto come un cantastorie d’altri tempi, ammaliando gli spettatori e tenendoli legati a sé con la parola nuda e l’intensità dei gesti. Piccoli colpi di tacco e la sedia e l’uomo si trasformano in un cavaliere, in un esercito, in un plotone di fanteria. Pochi gesti misurati, un volgere di sguardi, un impercettibile cambio di posizione e accanto, dietro, davanti a Baliani compaiono nobili, servi, cavalli, distese erbose e boschi lussureggianti di conifere.
Lo stesso Baliani si trasforma nel baldanzoso allevatore, orgoglioso dei propri cavalli, nella dolce Lisetta piena di amore per il marito, nell’arrogante barone, nel compassato e aulico imperatore, nell’eremita, nella misteriosa zingara. Come in una fiaba, con la ritualità e la ripetitività tipica del racconto fiabesco, con l’amara crudeltà della feroce giustizia nascosta nelle fiabe più antiche, “Kohlhaas” raggiunge ogni tipo di pubblico, diventando - oggi più che mai - attuale.