Tratto dal romanzo omonimo della scrittrice Elif Shafak, lo spettacolo riprende la tournée per il terzo anno. Merito indubbiamente della presenza in scena di Serra Yilmez, musa del regista Ferzan Ozpetek
Tratto dal romanzo omonimo della scrittrice Elif Shafak, La Bastarda di Istanbul, riprende la tournée per il terzo anno consecutivo. Merito indubbiamente della presenza in scena di Serra Yilmez, musa del regista Ferzan Ozpetek, attrice conosciuta al grande pubblico che in questa opera riletta e diretta da Angelo Savelli tira le fila di una saga familiare quasi interamente al femminile.
Tra il romanzo e la rilettura scenica
Nell’opera di Shafak, la protagonista è Armanoush, figlia di un armeno e un’americana. La ragazza, desiderosa di scoprire le proprie radici armene, decide di lasciare l’Arizona e partire alla volta di Istanbul dove, ospite della famiglia turca del patrigno, grazie a sua nipote Asya (la bastarda che da il titolo al romanzo) scoprirà che il confine d’odio tra turchi e armeni, quello che portò a uno degli eccidi più cruenti della storia, può essere superato. Nella rilettura scenica, Savelli parte dal punto di vista della famiglia di Mustafa, il patrigno di Armanoush, presentando le donne (madre e sorelle) in una carrellata raccontata in terza persona, ognuna con una personalità ben delineata e che segna, per ognuna di loro, l’evoluzione della figura femminile nella contradditoria Turchia dal dopoguerra ai nostri giorni.
La famiglia Kazanci narrerà anche le sorti dei maschi della famiglia, tutti prematuramente scomparsi ma, seppur non fisicamente, onnipresenti nei ricordi, nelle tradizioni e nelle scelte. Con l’arrivo di Armanoush, gli eventi prendono una piega più drammatica. E benché Armanoush e Asya da una parte, conciliano bonariamente la questione armena in un simbolico abbraccio di pace e fratellanza, nella famiglia Kazanci si consumerà un tragico epilogo.
Punti di forza e aspettative deluse
Lo spettacolo parte con tutte le buone intenzioni, ma si scontra inevitabilmente con alcuni limiti. La cultura turca è complessa, affascinante, poetica, tutto il suo splendore lo esprime nella letteratura e ne abbiamo prova anche nel cinema. Ma se non perfettamente rappresentata, risulta artefatta, falsata. Serra Yilmez è naturalmente l’unica che porta con se i ritmi, gli sguardi, il mistero di un mondo che racchiude una bellezza unica da mostrare. Per quanto gli attori possano essere preparati (cosa di cui non si dubita), manca la verità nel raccontare un mondo che giustamente non appartiene loro. Per questo motivo, i personaggi in scena stentano a evolversi.
Inoltre, il tempo scenico è scarso per raccontare una questione sociale e politica, lo spazio che ha Armanoush a disposizione per sviluppare la necessità di scoprire le sue radici e il relativo raggiungimento dell’obiettivo è scarso. E non basta un abbraccio simbolico se precedentemente non si è vissuto il tormento e il desiderio di arrivare a quell’abbraccio chiarificatore e paciere. Sarebbe invece interessante sviluppare il lavoro di visual art già iniziato da Giuseppe Ragazzini, delegando alcuni racconti (un po’ troppo lunghi) alle immagini, sfruttando l’effetto tridimensionale anche per raccontare con qualche dettaglio l’eccidio armeno (tema che si perde troppo nella rilettura scenica).
Insomma, è presente il materiale a disposizione ma manca quella scelta di ingredienti che profumano di buono, mancano tanto quei profumi per sentirsi veramente ospiti della multietnica Istanbul.