«Italia risorge vestita di gloria!». E' una sorta di proclama ideologico e politico, La battaglia di Legnano portato in scena al Teatro Regio. Non a caso, Potere e Politica è lo slogan del Festival Verdi 2024; e qui ci caschiamo in pieno, per ridondante celebrazione dell'Amor Patrio e della Religione, con uno spazio pure per l'esaltazione della devozione filiale e della tenerezza genitoriale. Quanto al tema dell'amore – la solita passione giovanile tradita per un borghese accasamento – rimane un po' in secondo piano, affrontato quasi con superficialità.
Insomma, anche se Verdi rimane pur sempre Verdi (e nulla si butta via), volenti o nolenti La battaglia di Legnano resta una delle sue più deboli creazioni, al terzo posto dopo la sgraziata Alzira e il balbettante Un giorno di regno. Affondata già al varo da un libretto drammaturgicamente poco coerente, e non sempre sostenuta da uno svolgimento musicale discontinuo, dove impennate di genio si alternano ad esercitazioni di buon mestiere. Il modello del grand-opéra è dietro l'angolo, con la grande storia che fa da sfondo alle passioni. Ma è un modello non ancora ben assimilato.
Scene da figurine Liebig
E' un tipo teatro condotto a quadri, come nelle famose figurine Liebig d'un tempo, affatto agevole a risolversi in scena. Se ne fa carico la regista Valentina Carrasco, che svolgendo una drammaturgia banale e già vista, muove dall'idea che il prorompente processo risorgimentale, apertamente evocato nei versi del Cammarano, termini solo con la Grande Guerra, quasi fosse un quarta Guerra d'Indipendenza. Così Lida sembra un po' Anita Garibaldi, i soldati lombardi in scena portano le divise dei fanti del Carso, in scena si mescolano vesti medievali e abiti più moderni, senza però intravedere una vera logica. Sono tutti a firma di Silvia Aymonino.
Le scene di Margherita Palli, volte alla massima astrazione, sulle quali scendono le luci di Marco Filibeck, abbondano di destrieri impagliati, cavalcati ed accuditi sul campo e in scuderia; ma anche ammazzati in guerra – una carcassa decollata e sanguinante rimane a lungo di fronte a noi - mentre sullo sfondo appare e dispare una concitata, barocca Battaglia dipinta a Roma dal Cavalier d'Arpino.
Un apparato registico che ripudia l'affresco storico - e va bene - ma lascia un senso di vuoto; che rimanda qualcosa a Vick, qualcosa a Pizzi – vedi l'irrompere in scena del Barbarossa, ritto sul suo cavallo - e molto a Ronconi; che allinea una serie di scelte visive alla fine un tantino gelide e sterili, che non ci persuadono del tutto.
Neanche trent'anni, ma già maestro autorevole
Diego Ceretta è un direttore ancor giovane – classe 1996 – ma che sa il fatto suo. Se ne sono accorti quanti si sono già assicurati i servigi, come l'Orchestra della Toscana di cui è direttore principale. In veste di concertatore, imposta per quest'opera una struttura narrativa incalzante, evitando peraltro ogni retorica ed impeti troppo trascinanti (che son tanti); lavora di abile lima con le impennate melodiche (non molte ma belle, in verità).
Scegliendo d'evidenziare piuttosto i tanti particolari timbrici ed armonici di cui la partitura è cosparsa, e mettendo in risalto una raffinatezza di scrittura strumentale che in fondo è il suo vero pregio. Segno che neppure in questo caso Verdi era sordo alle sirene di Oltr'Alpe. L'Orchestra e ed il Coro del Teatro Comunale di Bologna, col quale l'allestimento è coprodotto, lo assecondano molto bene in questo suo disegno complessivo.
Torna l'amore d'un tempo, ma è tardi
La terna dell'increscioso mènage à trois è ben composta, a cominciare dallo svettante Arrigo di Antonio Poli: irruento nello slancio eroico, il bravo tenore viterbese; ed introspettivo nel tormento amoroso, con voce sempre prodiga di suono e dal piacevole smalto, spiccando per calibrata irruenza nel duetto con Lida «Spento un fallace annunzio».
Vladimir Stoyanov tratteggia con fine psicologia il suo Rolando, al punto che la sua figura vocalmente risulta pienamente delineata, sin dal breve, spianato cantabile «Ah! m'abbraccia d'esultanza»; e passa in secondo piano un'emissione che mostra qualche inevitabile segno d'affaticamento.
Anche la voce di Marina Rebeka nell'affrontare la sua Lida ha perso qualcosina rispetto al passato di fine belcantista, posto che le colorature della cabaletta «A frenarti, o cor nel petto» non risultano proprio travolgenti; in compenso, la salda musicalità e l'intelligenza interpretativa spiccano altrove, specie nella Preghiera del finale e nell'accorata «Quante volte come un dono». Quest'ultima forse la pagina più bella dell'intera opera, dal pretto sapore belliniano.
Proprio barbaro no, imperatore sì
Grazie a Riccardo Fassi, per una volta il Barbarossa non sembra un barbaro e sanguinario invasore, ma l'aristocratico e fiero sovrano che in effetti era. Il bieco Marcovaldo tocca invece al bravo Alessio Verna. Tre allievi dell'Accademia Verdiana – Arlene Miatto Albeldas, Emil Abdullaiev e Bo Yang - ricoprono rispettivamente i ruoli minori di Imelda, dei due consoli. Francesco Pittari nella nostra recita è lo scudiero e l'araldo.