Unica nuova produzione del Festival Operistico 2024, in occasione dei 100 anni dalla scomparsa del compositore lucchese, la Bohème di Giacomo Puccini con la regia di Alfonso Signorini è andata in scena sul palcoscenico dell’Arena di Verona per due sole serate a fine luglio.
Dal mondo dello spettacolo alla regia d’opera
È prassi non infrequente in Italia quella di affidare regie liriche a celebrità del mondo dello spettacolo che solitamente si occupano d’altro, sperando così di attirare un pubblico quanto più eterogeneo possibile. Basta infatti dichiararsi appassionati d’opera o aver avuto una zia melomane con la quale si andava a teatro da piccoli per poter acquisire honoris causa l’attestato di regista, tanto è opinione abbastanza diffusa che, una volta rispettate le didascalie del libretto e coordinate le entrate e le uscite dei cantanti -occupazione per cui basterebbe a dire la verità un vigile- il gioco è fatto.
In realtà anche negli spettacoli cosiddetti “tradizionali”, quindi senza particolari stravolgimenti temporali o interpretativi, affinché si possa parlare di regia sono indispensabili almeno due caratteristiche: un lavoro sui protagonisti finalizzato alla costruzione del personaggio che fornisca loro tridimensionalità e credibilità sul palcoscenico e, aspetto sul quale cadono miseramente anche molti professionisti, capacità di muovere le masse sceniche.
Una regia nel complesso convenzionale
Purtroppo entrambi questi requisiti latitano nella Bohème di Signorini. Tolto infatti l’inizio del primo atto in cui, dopo una lunga controscena nella soffitta, si vede Mimì scendere volutamente da Rodolfo, a dimostrare un manifesto interesse nei confronti del giovane poeta e la chiara intenzione di sedurlo (idea interessante ma che si esaurisce dopo il primo quarto d’ora), i vari interpreti danno l’impressione di essersi costruiti i rispettivi personaggi in autonomia, ognuno basandosi sulla propria esperienza, e di agire sulla scena secondo schemi sostanzialmente convenzionali.
Tallone d’Achille dell’allestimento è però il secondo atto in cui i parigini che affollano le strade per il Natale, che dovrebbero fungere da contorno ai cinque bohémien al Caffè Momus, altro non sono che una massa che oscilla tra lo statico e l’ingolfato, cui nulla aggiunge né il viavai di acrobati e trampolieri che tentano di farsi largo tra la confusione, né le coppie di ballerini poste ai lati del proscenio di cui ci si dimentica dopo pochi minuti. Una tranquilla routine caratterizza il terzo e quarto atto che si dipanano in modo ordinario senza particolari guizzi.
Peccato perché dal punto di vista scenografico l’impianto progettato da Guillermo Nova offre più di uno spunto di interesse. Sul fondale si stagliano degli ampi teli che raffigurano i palazzi della Parigi ottocentesca che, se da un lato hanno fatto pensare al ritorno delle scene dipinte, con un balzo indietro nel tempo di almeno mezzo secolo, dall’altro si dimostrano molto efficaci nel riempire l’ampio spazio areniano. Al centro del palcoscenico una funzionale e visivamente accattivante struttura modulare di plexiglas si trasforma nei vari ambienti in cui si svolge la vicenda caratterizzandoli con grande semplicità ma altrettanta efficacia.
Apprezzabile il versante musicale
Più interessante l’aspetto musicale che si avvale di un cast affiatato. Vittorio Grigolo spicca per il timbro luminoso e la spavalderia con cui affronta gli acuti. Il fraseggio è sempre curato nonostante il tenore aretino non rinunci, come nel suo stile, a delineare un Rodolfo esuberante e guascone, scivolando talvolta in qualche eccesso.
Al suo fianco la Mimì di Juliana Grigoryan è protagonista di una prova in crescendo che trova il suo momento migliore in un terzo atto intenso e vibrante, mentre nel primo se la cantante sostanzialmente convince, l’interprete non sembra perfettamente a fuoco.
Nonostante un peso vocale non propriamente da Arena, Luca Micheletti si conferma raffinatissimo fraseggiatore ed eccellente interprete nel delineare un Marcello dal canto ricco di sfumature ed impeccabile sulla scena.
Rimarchevoli le prove di Eleonora Bellocci, una Musetta estroversa ma mai sguaiata o sopra le righe, di Alexandre Vinogradov, un Colline efficace nell’aria “Vecchia Zimarra” e di Jan Antem, un puntuale Schaunard.
Nonostante i problemi di gestione dello spazio nel secondo atto il Coro della Fondazione Arena diretto da Roberto Gabbiani si è egregiamente distinto. Alla testa dei complessi della Fondazione Arena Daniel Oren è stato protagonista una concertazione corretta ma trattenuta, dai tempi spesso dilatati, che raramente ha spiccato il volo. La sensazione è che il Maestro abbia optato per una certa prudenza in conseguenza ad un non sufficiente numero di prove.
Calorosi e convinti al termine gli applausi da parte di un anfiteatro che sfiorava il tutto esaurito.