Con la sua sofisticata ed enigmatica scrittura La tempesta è opera di notevole complessità per la varietà di questioni evocate nel corpo di una trama minimale e statica, in cui si susseguono allusioni al teatro e alla sua rappresentazione; un gioco metateatrale per cui Prospero, protagonista della vicenda, è al tempo stesso il nobile tradito dal fratello e il capocomico della compagnia che interpreta la commedia.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Il maturo Shakespeare racchiude diversi dei suoi temi prediletti in quest’ultimo lavoro, e trasforma la struttura del «revenge play» – il sottogenere, all’epoca diffuso, di commedia basata sulla vendetta – in elegia del perdono: la rivalsa di Prospero nei confronti del fratello traditore si consuma in una dimensione sospesa, forse immaginaria, che culmina appunto nel perdono dell’usurpatore.
L’opera tutta vive di opposizioni forti fra l’alto e il basso, il nobile e il popolare, l’amore e l’odio, il poetico e il prosaico, il naufragio e la salvezza.
Dal testo di Shakespeare alla scena
La messa in scena di Alessandro Serra parte dalla meticolosa indagine del testo e, facendo propria una traccia di Giorgio Strehler (che nel 1978 mise in scena una celebre edizione della Tempesta), assume per principio la separazione fra scrittura letteraria e copione di scena: se il pubblico di oggi ha strumenti di ricezione troppo differenti – per esperienza linguistica e visuale, contesto socioculturale, convenzioni e riferimenti – da quelli dello spettatore elisabettiano, allora la semplice trasposizione linguistica del testo di Shakespeare si risolve in una restituzione incompiuta del senso complessivo dell’opera.
Dunque il regista ha curato in prima persona (con l’aiuto di Donata Feroldi) la traduzione integrale della commedia in italiano contemporaneo, e da questa ha ricavato – eseguendo tagli, trasformazioni e qualche aggiunta – la versione destinata alla rappresentazione. In tal modo la scrittura scenica rinuncia ad alcune porzioni dell’edizione originaria sia per alleggerire il testo di quelle parti meno significanti per lo spettatore moderno (ad esempio l’interludio propiziatorio con Iride, Cerere e Giunone), sia perché – come già altre volte in Serra – il progetto di regia trasferisce parte dei significati nell’immagine e nell’azione.
La forza delle immagini completa la parola
Così nella splendida scena d’esordio il testo viene condensato in un precipitato di parole, a suggerire il moto incalzante della tempesta e l’affanno degli uomini in superficie, proprio mentre Ariel, col controllo dei propri gesti nella silenziosa profondità del mare, sta provocando la bufera. La presenza a vista dello spirito è invenzione di regia; la sua uscita teatrale dalla scena è il primo segno che dichiara apertamente la finzione e dunque il livello metateatrale del testo.
In generale nella costruzione dell’immagine il risultato del lavoro di Serra è sempre ragguardevole; e così il disegno delle luci, capace di tracciare spazi in dissolvenza l’uno nell’altro anche grazie a un sapiente movimento dei fondali. Magnifica anche la scena del banchetto del terzo atto realizzata come rituale ipnotico e arcano, in cui la parola viene efficacemente sostituita da una lugubre pantomima.
Più audaci gli interventi sul testo delle parti comiche, con inserzioni e battute che spingono sui tasti della corporalità e del linguaggio volgare per accentuare i colori del dialogo fra Stefano, Trinculo e Calibano. A sollecitare la risata dello spettatore arrivano anche alcune gag di marca contemporanea («Ha parlato Scianel», «Ué, Tina Turner», una strofa di «Cornutone» degli Squallor) che, se effettivamente suscitano l’ilarità del pubblico, pure appaiono come sensibili stonature per via del ricorso al conclamato e tutto sommato inutile anacronismo; un’incongruenza che in qualche momento assottiglia la compattezza della poetica, nonostante l’indiscutibile bravura degli interpreti.
Prezioso invece il quadro finale, in appendice al monologo conclusivo di Prospero, con cui Serra risolve brillantemente l’uscita di scena di Ariel – la sua definitiva liberazione, che è anche uno struggente addio – attraverso un breve congedo che fa ritornare, ora a sigillo dell’intera messa in scena, la parola-chiave «perdono».
Una soluzione intraprendente, che osa “emendare” l’originario finale in anticlimax con una clausola lirica; un’intuizione vibrante ed efficace che per un istante riconduce lo spettatore alla sospensione magica dell’esordio.
Un'esecuzione corale
La macchina teatrale messa in piedi da Serra è un congegno di precisione che esibisce una cura e un’esattezza non comuni. Al lavoro minuzioso sulla forza immaginifica delle scene corrisponde una puntuale coralità degli attori che, come in un’orchestra ben intonata, fanno prevalere una sorta di voce collettiva sull’esecuzione dei singoli.
Fra i solisti spiccano le prove di Marco Sgrosso, che interpreta con sapienza un Prospero avviluppato nei suoi indecifrabili sentimenti, né troppo magico né troppo regale; Massimiliano Poli e Vincenzo Del Prete, esecutori giusti di un duplice “fool” corporeo e plebeo senza istrionismi; e l’eterea Chiara Michelini, dal gesto leggero e luminoso, che pur senza staccare i piedi dal palco sembra far volare il suo umanissimo e tenero Ariel.