L’Arte è libera? Il potere uccide l’Arte? La politica condiziona?
"Taking sides" (letteralmente “schierarsi”) di Ronald Harwood è un testo che ha meno di 20 anni. Pesca a piene mani dalla storia, dall’etica e si rigetta a capofitto nell’attualità. Il battesimo fu la regia di Pinter a Londra e, negli anni, ha avuto traduzioni più o meno infelici. Qui arriva come “La torre d’avorio”, ovvero luogo figurato di isolamento volontario, di orgogliosa disconnessione dal mondo per affaccendarsi in intellettualismi d’élite, rimestando nel calderone dei propri ideali.
Berlino, 1946. Indagini a tappeto degli Alleati per stanare i sostenitori del Nazismo. Non si guarda in faccia a nessuno, tutto fa brodo. Il vero bottino sono artisti e intellettuali rimasti in patria durante il regime, scelte da sviscerare fino all'esasperazione reciproca. Prede celebri che aggiungono sapore alla vendetta. Tocca dunque anche al grande direttore d’orchestra Furtwängler (De Francovich), pur da sempre dichiaratamente neutrale e intelligentemente schivo nelle rare esibizioni che concedeva. Il rozzo maggiore americano Arnold (Zingaretti) è il torchiatore perfetto, sbudellatore di vere o estorte verità. Strenuo sostenitore della “legge è uguale per tutti”, con l’aggravante dell’odio per la musica classica, Arnold fa uno più uno: hai fatto arte per il nazismo? Sei colpevole. Ma Furtwängler sottrae: ho fatto arte durante il nazismo, e quindi? Arte è arte, politica è politica. Lo schieramento è frutto della fantasia altrui.
Uno scontro ai poli tra due culture, tra finte aperture mentali che altro non sono che gigantesche chiusure di comprensione. Ognuno dei due è testardamente convinto delle proprie ragioni: il musicista, utopisticamente certo che la sua arte fosse il dolcificante per il veleno inoculato dalla politica; il maggiore, sicuro che scegliere di restare in Patria equivalesse asservirsi al Nazismo.
Qualcosa non gira, nello spettacolo. Manca la tensione dell’interrogatorio, il ritmo si spegne a intermittenza, spostando il pathos in una torre d’avorio da cui la forza del testo non riesce a uscire del tutto, come meriterebbe. Il bravissimo Zingaretti qui pare penalizzato, quasi prigioniero di quell’incancellabile Montalbano, ormai volto e voce che fuoriesce da tutte le parti e che distrae, volente o nolente, lo spettatore. Più credibile De Francovich, pur in un personaggio poco ieratico che non fa immedesimare il pubblico nello sdegno subìto. Ti vorresti, ti dovresti incazzare, ma qualcosa resta sospeso, pur nel buon impianto generale.