Prosa
LAIKA

Laika: l’umanità perduta secondo Ascanio Celestini

Laika: l’umanità perduta secondo Ascanio Celestini

Verso l’alto vi è il cielo, “la volta celeste che scivola verso il basso senza una teoria scientifica”, verso il basso vi è un barcone di naufraghi sommersi dall’acqua nella speranza di raggiungere una nuova terra e nel mezzo? La poesia delle persone ai margini, straordinariamente umane, a tratti goffe e grossolane, a tratti profonde e sincere. È verso questa dimensione che guarda Laika, la prima tappa di una trilogia che Ascanio Celestini sta costruendo dal 2015 e si concluderà con il debutto in autunno di Pueblo al Festival di Romaeuropa, dopo aver presentato di recente a Liegi Dépaysement, una pièce autobiografica.

La magia del teatro di narrazione è dar vita attraverso le parole a personaggi immaginari, tenere vita l’attenzione del pubblico con ritornelli, lasciare che sia la vocalità a prevalere sull’essenzialità della scena.

Sei lampade accese chiudono i confini di uno spazio scenico, circoscritto da cassette colorate di plastica e un sipario rosso; un’atmosfera intima e raccolta che si anima con i ritmi della fisarmonica di Gianluca Casadei, coprotagonista dello spettacolo in qualità di Pietro che interviene direttamente nel dialogo, perché a rispondere è la voce fuori campo di Alba Rohrwacher.
 

Le avventure di un povero Cristo
Celestini è un Cristo che beve sambuca e racconta ai clienti di un bar le avventure di alcuni abitanti del quartiere: un barbone nordafricano, i facchini di un supermercato, una signora atea e un’anziana con la testa “impicciata” ovvero affetta da demenza senile. Personaggi stereotipati di un’umanità da bassifondi e periferia, ma il teatro stesso ci insegna che una narrazione efficace ha bisogno di “luoghi comuni” e “formule” che si ripetono per rassicurare lo spettatore e far sì che anch’egli possa dare un volto personale alla maschera citata sul palcoscenico. Ogni storia presentata da questo Cristo contemporaneo cela in sé l’amara critica verso le debolezze del sistema sociale che crea fantalavori, paure del diverso, pregiudizi e solitudini.
 

La semplicità di luoghi comuni che scivola nell’indifferenza e nel rifiuto aprioristico.
L’attore romano con la sua mimica e narrazione riporta l’attenzione sul quotidiano, sulla comunità civica che nella sua diversità acquista il proprio valore, quella che ci sfiora ogni giorno e che ogni giorno ci regala un sorriso, perché ognuno di noi ha conosciuto una vecchietta impicciata o nega l’elemosina al barbone fuori dal supermercato.

Uscendo dal teatro e passeggiando sotto la pioggia per i portici di Bologna, circondati da giovani e adulti pronti al divertimento del sabato sera, ti assale un’emozione senza malinconia che sorvola sui pregiudizi e ti permette di osservare con partecipato stupore all’umanità che ti circonda, perché consapevole che dietro un’apparenza patinata potrebbe nascondersi lo spirito di un “povero cristo” che lotta per trovare il suo posto nel mondo. Attenti, però, a far sì che sul mondo rimangano gli uomini reali, attenti a non essere sacrificati per qualche spedizione nello spazio.

 

Visto il 06-05-2017