L’Avaro di Molière: quando si mette in scena un superclassico, il rischio è noto: non puoi contare sull’effetto-suspence, perché tutti sanno già come va a finire. A questo punto l’unica arma per tenere lo spettatore inchiodato alla poltrona per oltre due ore, può risiedere solo nella bravura degli attori, nelle scelte di regia, nel sapiente bilanciamento di luci, scenografia, effetti.
Nel caso dell’Avaro, tutto dipende dalla credibilità del personaggio-cardine Arpagone e da come vengono messi in scena i suoi tic, le sue manie, i suoi loop verbali, le sue paure, i suoi schemi mentali razionali e demenziali al tempo stesso.
Ugo Dighero riesce a entrare perfettamente in questa parte che costituisce l’80 per cento della narrazione e del suo significato. Con le sue spalle Dighero-Arpagone si fa carico dell’arduo compito di tenere avvinto lo spettatore, rendendo credibile l’inverosimile: trasforma in storia plausibile il tipo umano iperbolico nei suoi difetti creato da Molière. Magari approfittando anche della cadenza genovese che nell’immaginario collettivo viene da sempre associato a una certa “tirchiaggine” stereotipata.
Funzionano le gag e le battute
Le gag basate sui doppi-sensi, sugli equivoci, sull’errata interpretazione di frasi e segnali, funzionano tutte perfettamente. E fino alle battute finali nulla fa pensare che Arpagone andrà incontro al giusto castigo: a tratti sembra anzi che abbia ragione lui, e che gli altri personaggi-antagonisti non siano poi migliori dell’avaro. Infatti non se ne vanno e non si ribellano, come potrebbero pur fare, per non dover rinunciare a una cospicua eredità quando sarà il momento. O a un posto di lavoro comunque sicuro.
Credibili e divertenti, nonostante gli inevitabili stereotipi previsti dalla parte, gli altri personaggi: Mariangeles Torres, la ruffiana Frosina; Stefano Dilauro ed Elisabetta Mazzullo, i figli di Arpagone; Cristian Giammarini, il faccendiere; e tutti gli altri.
Il regista Luigi Saravo, insieme allo scenografo Lorenzo Russo Rainaldi, crea uno spazio moderno, contemporaneo, con bacheche mobili illuminate. Custodiscono la “roba”, gli oggetti più disparati, il simbolo del possesso fine a sé stesso: anche di cose inutili. I soldi, sempre evocati, vengono mostrati solo nel finale.
Ma gli altri non sono migliori di Arpagone
Arpagone è rimasto solo con il suo tesoro, ignorato da tutti gli altri che gioiscono in un tripudio di amore, matrimoni e buoni sentimenti. L’avaro si rende conto della sua solitudine, si accorge che il suo capitale non è in grado di assicurargli la felicità che credeva, e allora disperde ai quattro venti il suo denaro, forse in un impeto di estrema redenzione.
E allora succede l’inevitabile: tutti i moralisti di prima e i fidanzati che fino a poco fa si giuravano amore eterno si gettano a capofitto sulle banconote, disputandosele tra loro con cattiveria. Alla fine aveva amaramente ragione l’avaro: gli altri non sono migliori di lui.