Le Muse orfane, scritto nel 1988 da Michel-Marc Bouchard, costituisce una delle punte massime del teatro contemporaneo canadese.
Quattro personaggi in scena, Luca, Caterina, Isa e Martina, fratello e sorelle, sono tutto quel che resta della famiglia Tanguay.
Loro padre, Lucien, arruolatosi in seguito al tradimento di sua moglie Jacqueline, è morto in un'azione di guerra, mentre loro madre ha abbandonato figlie e figlio in tenera età per andare a cercare il suo amore, Federico, in Argentina, 30 anni orsono.
Grandi assenti i genitori di Jacqueline e Lucien, sui quali la pièce tace.
Questa cornice narrativa si delinea nell'arco di tutto lo spettacolo, con alcune correzioni e conseguenti colpi di scena.
La "madre assente" è sempre in scena a cominciare dai vestiti regalatigli da Federico che Luca indossa per "dare scandalo" in paese, proprio come fece sua madre, nonostante i disperati tentativi di Caterina di impedirglielo. Caterina è l'unica a vivere ancora nel paese, assieme a Isa; Luca vive in città mentre Martina si è arruolata nell'esercito, come il padre, e vive lontanissima.
A riportare sorelle e fratello sotto lo stesso tetto è Isabella dietro istruzioni della madre che, dice, si è rifatta viva dopo trent'anni.
Il confronto tra i quattro personaggi permette al pubblico di apprezzare le diverse soluzioni che hanno trovato per superare l'abbandono materno, comprese alcune bugie ingannatrici, mentre la lettura del libro di memorie materne, cui Luca lavora senza sosta da 25 anni, è occasione per far rivivere, in una recita che, ai tempi dell'infanzia, doveva ripetersi con una certa regolarità, la sera drammatica in cui Jacqueline "fece scandalo" presentandosi in chiesa con Federico.
Apparentemente incentrata sull'abbandono materno il vero focus della pièce ci sembrano piuttosto gli effetti della pressione sociale su di una famiglia poco incline a seguire le regole del patriarcato, a cominciare dai personaggi maschili: Lucien, il padre, che trova la morte in guerra e Luca che preferisce farsi memoria vivente di sua madre piuttosto che imparare a vivere con le sue sole forze.
Caterina ha avocato su di sé le funzioni "femminine" di cura sulla sorella Isabelle e, alla fine della pièce, su di Luca, anche perché, essendo sterile, non può dedicarsi a una prole tutta sua.
Martine si è rifatta una vita altrove con un'altra donna (e Bouchard vede, a torto, in questa scelta l'impossibilità di fare figli) mentre Isabella, che soffre di difficoltà nell'apprendimento, trova da sola il coraggio di autodeterminarsi.
La scrittura scenica felicissima dà sempre un significato altro ai dettagli più insignificanti: così il quaderno in cui Isabella segna il significato delle parole che non conosce ricorda quello che usava Federico per segnare le parole francesi che apprendeva, mentre le lettere di loro madre, che Caterina ha nascosto alle sorelle e al fratello, fanno da pandant a quelle immaginate e scritte da Luca nel suo romanzo.
La messinscena italiana si avvale, oltre che di una scenografia (di Francesco Ghisu) e di costumi (di Lucia Mariani) indovinatissimi, di quattro interpretazioni convincenti, nonostante una tendenza comune delle attrici e dell'attore a non scandire sempre le parole, in nome di un naturalismo più cinematografico che teatrale.
La dimensione di confine dell'estrema provincia canadese del testo originale (che precisa luoghi e date, Saint-Ludger-de-Milot, aprile 1965) è rarefatta nella messisncena italiana in un altrove di non immediata identificazione, soprattutto sul versante temporale: i dischi suonati dai personaggi in scena spaziano dalle canzonette anni 30 a canzoni troppo recenti L'importante è finire di Mina è del 75, per capire l'epoca in cui la pièce è ambientata.
Dei diversi piccoli cambiamenti nel testo si impone quello del finale che vede Cristina e Luca preoccuparsi di consumare la cena mentre nell'originale la sorella si prende cura del fratello reiterando le sue cure materne come aveva fatto con Isa.
Uno spettacolo riuscito e molto seguito (alla terza settimana di repliche dal debutto nazionale la sala era piena) che caratterizza una brillante stagione del teatro Argot in cui è in scena fino a Domenica 19 Febbraio.