Come ci ha confessato Antonio Zavatteri in una recente intervista rilasciata alla nostra testata, la scelta di un testo non è mai un atto semplice e indolore; le sue parole “La decisione di mettere in scena un testo è un parto infinito”, sottolineano come, il più delle volte, la scelta di un testo sottintende tutta una serie di condizioni tali che tale scelta non si possa considerare completamente libera. Infatti, oltre alle proprie urgenze, alle proprie necessità o desideri occorre inevitabilmente tenere conto delle reali possibilità di distribuzione di uno spettacolo nonché la possibilità di incuriosire e interessare il pubblico nelle sale.
In effetti, prima di approdare a Le prénom, Zavatteri aveva in mente un altro testo “Questo è un testo a cui siamo arrivati; inizialmente volevamo fare Carnage (da Le dieu du carnage di Yasmina Reza) perché a noi interessava esplorare, sempre in una forma di commedia brillante, qualcosa che avesse a che fare con i nuclei, la famiglia; alla fine, tutto considerato, siamo arrivati a questo testo che, a mio avviso, è anche un’ottima scelta dal punto di vista commerciale”.
E in effetti, se si pensa al successo strepitoso che sia la pièce che la sua trasposizione cinematografica hanno avuto in Francia, non è difficile immaginare come si sia arrivati a questa scelta che tuttavia, proprio in virtù di questo successo, avrebbe potuto rappresentare anche un insidioso limite.
In realtà lo spettacolo di Zavatteri nel suo insieme appare un prodotto ben confezionato e di sicuro impatto. Una cena tra amici, un fratello (Aldo Ottobrino) e una sorella (Alessia Giuliani) con i rispettivi coniugi (Alberto Giusta e Gisella Szaniszlò) e un amico trombonista di vecchia data (Davide Lorino); una serata che si annuncia gioiosa e conviviale ma che in men che non si dica, complice lo scherzo architettato dal fratello della padrona di casa, Vincent, si trasforma per gli astanti in un’occasione per dare sfogo alle proprie frustrazioni e ai sentimenti più nascosti. E’ cosi che in un gioco di equivoci e provocazioni, la discussione degenera dando luogo a ripicche e rinfacci al vetriolo che porteranno la commedia su un piano decisamente tragicomico.
A fronteggiarsi sul “campo di battaglia” una borghesia tutto sommato ben riconoscibile: la sinistra colta e progressista da un lato (Elizabeth e Pierre sono entrambi professori) e la destra ignorante e spocchiosa dall’altro (Vincent è un’agente immobiliare che circola col suv e parcheggia in sosta vietata, mentre Anne, sua compagna, si occupa di moda).
Sarà proprio Vincent (uno strepitoso Aldo Ottobrino), figura chiave nella doppia veste di narratore e protagonista, ad innescare il singolare equivoco: lui e Anne aspettano un figlio e alla classica domanda “Che nome darete al pargolo?” Vincent, senza alcuna esitazione, oppone un nome dichiaratamente “nazista” lasciando i padroni di casa perplessi sulle prime, pensando si tratti di uno scherzo e visibilmente infuriati dopo (soprattutto Pierre) quando la determinazione di Vincent non lascia spazio ad alcun dubbio.
La commedia scivola per un’ora e quaranta tra battute divertenti e spunti di riflessione senza mai risultare pesante e questo grazie ad un cast decisamente all’altezza (tutti o quasi ex allievi dello Stabile di Genova); ad una traduzione, quella di Fausto Paravidino, sobria e calzante; e ad una regia che coordina, senza mai risultare invasiva o limitante delle individualità degli attori, un lavoro senza alcun dubbio ben riuscito che strappa, a più riprese, dei meritatissimi applausi. Da non perdere.