Manifestazione inevitabilmente focale nell'ambito delle celebrazioni per i cento anni dalla scomparsa di Giacomo Puccini, il 70° Festival di Torre del Lago s'apre partendo dagli esordi teatrali del compositore lucchese. Vale a dire da Le Willis (1884) e da Edgar (1889), due opere assai raramente visibili. Nondimeno, nella visione lungimirante del direttore artistico Pier Luigi Pizzi, proprio questa appare l'occasione giusta, ed il luogo giusto per riproporle.
Certo, non sono capolavori al pari dei titoli che faranno seguito – nel cartellone del Festival viareggino 2024 il Puccini maggiore c'è tutto, da Manon a Turandot – ma la loro conoscenza è importante per valutare a fondo la sua parabola artistica.
Un'opera-ballo per un Concorso Sonzogno
Le Willis ci viene offerta nella versione primigenia in un atto - l'edizione critica è a cura di Martin Deasy - e non in quella successiva e più ampia in due atti, voluta dall'editore Ricordi e intitolata Le Villi; la versione che venne sottoposta dal giovane Puccini al Concorso Sonzogno, che per regola pretendeva una certa componente sinfonica.
Ignorata dalla commissione, Le Willis andò comunque in scena al Dal Verme il 31 maggio 1884 per interessamento di alcuni illustri sostenitori e del suo librettista (Ferdinando Fontana, e non Adami e Simoni come riportato nel programma di sala; che peraltro riporta più avanti quali autori dei versi di Turandot non quest'ultimi, ma erroneamente Giacosa ed Illica).
Tre soli interpreti, molte danzatrici, un successo lusinghiero
L'impostazione di Puccini sfocia in una agile opera-ballo con soli tre soli interpreti in campo: la giovane Anna, qui delicatamente risolta da Lidia Fridman; il di lei padre Wulf (non Gulf, come scritto in locandina), solidamente interpretato da Giuseppe De Luca; e il dissoluto fidanzato Roberto, gagliardamente reso da Vincenzo Costanzo.
L'orchestra di casa è presieduta da Massimo Zanetti, che infonde notevole vigore e giusta corposità alla impellente, rigogliosa creatività pucciniana, che procede qui per rapidi, incalzanti e densi pannelli musicali. Gli importanti inserti coreografici sono accortamente risolti da Georghe Iancu, ispirandosi ai clichés più nobili del balletto ottocentesco.
Il secondo cimento operistico, un flop
Edgar, come si sa, sin dalla prima scaligera dell'aprile 1889, andò incontro a ripetuti fiaschi, senza mai entrare in repertorio. L'inventiva di Puccini, che rimise mano più volte alla partitura senza mai approdare a risultati convincenti, fu infatti raffrenata e sviata dal libretto claudicante e incongruo del solito Fontana, che in più portava il compositore su terreni lontani dalle sue corde.
Qualche pagina magari si salva: come il teatralissimo contrasto fra il Kyrie dei fedeli e la scurrile ballata di Tigrana; come il grande duetto Fidelia/Edgar; o come il dolente Requiem, che Toscanini volle eseguire alle esequie di Puccini nel Duomo meneghino.
Inutile negare però che questa versione primigenia che ci viene proposta a Torre del Lago, da poco ricostruita sulla base dell'autografo a cura di Lidia Fairtile (peraltro assoggettata a qualche taglio) risulta all'ascolto, maluguratamente, quella più intralciata e debole. Dal podio Massimo Zanetti fa quel che può, tiene serrate le fila strumentali e cura bene la concertazione, ma neanche il buon Dio potrebbe risollevare le sorti di una partitura così debole e disomogenea. In futuro, meglio riadottare la versione in tre atti di Buenos Aires 1905, più appetibile.
Eterna lotta tra Vizio e Virtù
La cifra distintiva di Edgar è quella di un'esasperata contrapposizione fra Vizio e Virtù. In questo caso, fra due donne che sin dal nome stesso sono diametralmente agli antipodi, visto che una si chiama Fidelia, l'altra Tigrana. In mezzo, l'ibrido e poco realistico ruolo protagonistico – ora invasato, ora lussurioso, ora eroico, ora penitenziale - che vediamo posto nelle mani di Vassily Solodkyy: bella voce, ben timbrata e luminosa, che dilaga facile nello spazio; ma che non è sempre ben amministrata, sconfinando qualche volta nel grido.
L'angelica e umile figura di Fidelia trova in Lidia Fridman un'interprete vocalmente adeguata, ma anche un po' disinteressata; assai più spicca in scena la ferina e sinuosa Tigrana del mezzosoprano Ketevan Kemoklidze, non solo per ragguardevole spessore sonoro, ma anche per vitalità e franco carattere. Vittorio Prato è un brillante e virile Frank; Luca Dall'Amico un nobile e misurato Gualtiero. Molto bene il coro del Festival, diretto da Roberto Ardigò; un plauso anche alle piccole Voci Bianche preparate da Viviana Apicella.
Un impianto di base buono per più allestimenti
Partendo da un concetto di unitarietà, che attraverserà poi tutte le messinscene previste, Pier Luigi Pizzi ha voluto impostare uno spazio scenico pulito, dilatato, con pochi oggetti - e dunque senza inciampi, ideale per rapidi cambi a vista - prevedendo al centro dello smisurato palcoscenico un ripiano in parte ruotante, e dietro un immenso ledwall. Soluzione questa che offre la possibilità di ricreare agevolmente e con innegabile efficacia il succedersi di spazi e di atmosfere, valida anche per le successive opere in cartellone.
L'idea funziona sin da subito, e serve tanto per immergerci nel bosco incantato di Le Willis, quanto per rappresentare le ordinate, candide case del villaggio di Edgar. Gli spunti scenografici sono suoi, li sviluppa tecnicamente Matteo Letizi, mentre Massimo Gasparon si fa carico delle luci.
La direzione registica, come nel suo stile, è all'insegna della sobrietà: sempre attenta e perspicace, ricca di vivida teatralità, sostiene ed accompagna con buon discernimento il fluire musicale. I costumi Pizzi li ha disegnati da sé con grande cura, sono al solito molto eleganti, buoni pure passare in qualche caso da un'opera all'altra. Gli inserti coreografici di Georghe Iancu conferiscono adeguati tocchi di colore.