Nei suoi scritti teorici sull’arte del teatro Gordon Craig scriveva – criticando il concetto d’opera d’arte totale di wagneriana memoria nella quale l’esperienza teatrale era concepita come epifania estetica in quanto sintesi di tutte arti – che la scena non dovesse semplicemente mescolare le suddette arti, ma che avesse il delicato e fondamentale compito di far dialogare gli elementi di tutti i linguaggi artistici, riplasmati in un nuovo linguaggio specificamente teatrale. La parola, dunque, non come poesia, ma come elemento della scena, come semplice suono articolato nella scrittura scenica dello spettacolo. La messa in scena di Antonio Latella del Lear di William Shakespeare, presentata al Teatro Nuovo di Napoli con grande attesa del pubblico, sembra ricollegarsi proprio alla storica dura presa di posizione delle avanguardie storiche dei cosiddetti ri-teatralizzatori di inizio Novecento nei confronti di un canone teatrale molto legato alla dittatura della parola ed in Italia caratterizzato dall’ingombrante presenza del grande attore, assoluto mattatore dello spettacolo.
L’impostazione drammaturgica di Latella, costruendo la sua personale messa in scena scespiriana sulla figura, sul corpo e sulla voce di un attore di lunga tradizione come l’ottantenne Giorgio Albertazzi, sembra proporre una lettura didattica del concetto di testo spettacolare. Si parte da una lunga tavolata attorno alla quale Albertazzi/Lear conduce le prove di uno spettacolo tutto da farsi, in cui gli attori leggono la parte e provano e riprovano la loro interpretazione. Libro, testo, copione, pagina scritta: questa la superficie significante che detta la legge della produzione spettacolare. Albertazzi interpreta se stesso ed il personaggio di Lear in fieri, indirizza la recitazione della compagnia e chiede totale aderenza al testo scritto. Latella introduce il suo Lear alla luce di una apparentemente scontata meta-teatralità, nella quale gli attori escono ed entrano dalla loro parte, studiano i loro personaggi, ma tentano anche di ribellarsi, appropriandosi di battute altrui, ma subito venendo redarguiti; in realtà, Latella sta giocando con l’ingenuità del pubblico, cercando di depistare lo sguardo dello spettatore, di portarlo lontano, fino alla grande stagione ottocentesca del mattatore che arrivava sovrapporre il testo teatrale alla sua personale interpretazione. Infatti, in questa prima parte dello spettacolo, quella che sembra la più scontata e datata, Albertazzi/Lear domina assolutamente i tempi e i modi della scena.
Arrivati alla famosa tempesta in cui Lear sembra perdere/recuperare il senno e cominciare a guardare i fatti della vita con altri occhi, il testo scenico articolato da Albertazzi si disarticola improvvisamente. I fogli dei copioni della compagnia cominciano a volteggiare nel’aria, gli attori abbandonano la loro ordinata posizione attorno al tavolo per correre sbizzarriti, il vento di una nuova teatralità scompone la scena, fino a spingere Albertazzi/Lear a rifugiarsi presso una capanna immaginaria tra il pubblico in platea. Questo è simbolicamente il punto in cui la drammaturgia della dittatura del testo e della interpretazione dell’attore cede il passo agli stilemi scenici di una teatralità moderna e craighiana nella misura in cui le assi che compongono il tavolo da lavoro del gruppo teatrale diventano improvvisamente degli screens allungati e sottili a formare una foresta in cui il povero Edgar deve vagare impaurito per le accuse che lo hanno calunniato. Le parti migliori dello spettacolo sembrano esplicitarsi con la necessaria uscita di scena di Lear, incapace di capire il mondo, e di un attore Albertazzi incapace di raccontarlo. Il teatro è finalmente nudo e la scena si fa abilmente scrittura. Quando poi Lear/Albertazzi ritorna in scena comprende immediatamente i cambiamenti estetici sopraggiunti e dichiara pirandellianamente che lo spettacolo non può terminare, bloccandosi al terzo atto.
Il grande valore della rappresentazione scespiriana di Latella e della interpretazione di Albertazzi è nell’avere raccontato il funerale di una certa tradizione teatrale – il testo su un catafalco che le assi della scena vanno a formare nell’ultima immagine – ma anche quello di avere elaborato un senso storico di questo percorso della scena attraverso una drammaturgia capace di abbattere, ironicamente, i propri idoli.