Luci ed ombre hanno caratterizzato la nuova produzione de Les contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach al Teatro alla Scala, che ha visto ricostituirsi la coppia di protagonisti della Gioconda della scorsa stagione ovvero Frédéric Chaslin sul podio e Davide Livermore alla regia.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Un bianco e nero espressionista
Influenzato dall’atmosfera gotico-fantastica dei racconti dello scrittore tedesco Ernest Theodor Amadeus Hoffmannn da cui Offenbach trasse la sua opera - uno in particolare: L’omino di sabbia - Livermore ha scelto di ambientare la vicenda nella seconda metà degli anni ’30, in un’atmosfera che rimanda al periodo di decadenza della Repubblica di Weimar, qui rappresentato in chiave noir.
L’allestimento, firmato nelle scene da Giò Forma e nei costumi da Gianluca Falaschi, immerge l’intera vicenda in un bianco e nero che, grazie anche ai giochi d’ombra realizzati dalla Compagnia Controluce, visivamente rievoca il cinema espressionista tedesco.
Ed infatti se la distesa di occhi proiettati sul fondale nella scena di Olympia è una chiara citazione del Dottor Mabuse di Fritz Lang, la stessa bambola gorgheggiante, di cui viene enfatizzato il suo essere oggetto meccanico, può idealmente rimandare alla Maria di Metropolis.
L’opera inizia con l’uccisione di Hoffmann che da lì si sdoppia: da una parte l’uomo che entra ed esce dalla bara per vivere le varie avventure amorose, dall’altra il poeta che alla macchina da scrivere le racconta, accentuando l’ambiguità tra realtà e fantasia, ma allo stesso tempo facendo calare sullo spettacolo una cappa mortifera che alla lunga lo penalizza.
Le scenografie perennemente drappeggiate di nero, la presenza quasi costante della bara -che nella Venezia del terzo atto diventa anche gondola- le luci fredde di Antonio Castro tendono a smorzare quella componente ironica e giocosa che comunque fa parte dell’opera.
Certo, non mancano momenti efficaci quali la scena della scomposizione di Olympia, alcune suggestive proiezioni o la scena della “Barcarola” in cui un sottile velo invade tutta la platea trasformandola in uno specchio di mare, tuttavia non bastano le mossettine o i balletti accennati da parte del coro a rivitalizzare una regia che alla lunga tende ad apparire troppo uniforme, oltre al fatto che il continuo aggiungere sovrastrutture e simbolismi rende ancora meno intelligibile una vicenda già di suo abbastanza contorta.
Convince il cast ma non il direttore
Interlocutorio anche l’aspetto musicale, mortificato dalla concertazione di Frédéric Chasilin che, seppure in un differente repertorio, ha qui confermato le perplessità suscitate nella Gioconda della scorsa stagione con una direzione sbrigativa, generica ed avara di dinamiche che ha appiattito lo scintillio di colori e sfumature di cui la partitura è ricca.
Decisamente meglio il versante vocale a partire dall’ottimo Hoffmann di Vittorio Grigolo che sfoggia un timbro solido nei centri e luminoso nell’acuto impreziosito da un fraseggio screziato e ricco di sfumature.
Certo, si può obiettare che il suo modo di porsi sulla scena, estroverso e un po’ guascone, tenda a rendere i suoi personaggi sempre uguali, ma la voce notevole ed il carisma trascinante catalizzano l’attenzione del pubblico. Impegnato nei quattro ruoli demoniaci (Lindorf, Coppélius, Dappertutto e Miracle) Luca Pisaroni fatica a trovare una caratterizzazione per ciascuno di essi che risultano nel complesso poco differenziati.
L’interprete è comunque credibile nonostante qualche limite vocale soprattutto nel registro acuto. Alfonso Antoniozzi, quale Luther e Crespel, si conferma interprete di prima grandezza mentre convincono più nella recitazione che nel canto i quattro servitori Andrés, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio interpretati dall’eclettico François Piolino.
Sul versante femminile spiccano l’Antonia tal timbro morbido e sensuale e dal suadente fraseggio di Eleonora Buratto e La Muse/Nicklausse di Marina Viotti che con la romanza “Vois, sous l’archet frémissant” ha conquistato l’applauso più caloroso della serata. L’Olympia di Federica Guida si è ben distinta nonostante qualche difficoltà nei sopracuti mentre non sempre a fuoco è parsa la Giulietta di Francesca Di Sauro.
Ottimo il coro diretto da Alberto Malazzi, protagonista di un’esecuzione impeccabile. Se durante l’opera il pubblico è parso timido e guardingo nell’applaudire, con qualche dissenso nei confronti di Chaslin, la ribalta finale è stata salutata da un successo franco e caloroso.