Uno dei personaggi femminili più controversi della storia. Filosofi, scrittori e studiosi la dipingono come sanguinaria, incestuosa, avvelenatrice e dissoluta. Victor Hugo le dedicò un dramma, Gaetano Donizetti e il librettista Felice Romani un’opera lirica.
Dopo le repliche spagnole, a due anni dalla programmazione, arriva finalmente al Teatro Comunale di Bologna la nuova versione di Lucrezia Borgia, co-prodotta dalla fondazione lirico-sinfonica della città felsinea con l’Auditorio de Tenerife e l’Ópera de Oviedo.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Carne e violenza
Si direbbe che le aspettative siano state deluse, vista l’accoglienza riservata dal pubblico bolognese al nuovo allestimento, regia di Silvia Paoli e direzione musicale del canadese Yves Abel.
Fischi e lamentele piovono a raggiera fra un cambio di scena e l’altro, forse gli spettatori protestano a gran voce per la realizzazione troppo carnale o violenta? Siamo in una specie di mattatoio. Macchie scure e schizzi di sangue spiccano sulle mattonelle bianche. Ai due lati del palco ganci da macello e catene.
Ma facciamo un passo indietro. La rilettura della Paoli del “mito” di Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara e figlia illegittima di Papa Alessandro VI, punta a rivalutare «una storiografia misogina e anticlericale, che indulgeva all’invettiva e all’esecrazione moralistica», come spiega Giovanni C. F. Villa in uno dei saggi contenuti nel libretto di sala.
Da qui la scelta di annullare il giudizio sulla vita e le scelte della donna, dipingendola non come carnefice ma quasi come vittima di un sistema dove solo gli uomini hanno potere e portano avanti l’azione. Dal rinascimento italiano si passa così ai neri anni ’20 del fascismo, il patriarcato regna indiscusso e la donna è solo un abbellimento in maschera, un soprammobile, o peggio ancora un corpo su cui sfogare le proprie voglie.
La Paoli gioca con le metafore favolistiche, raccontando nel prologo di come Lucrezia/Cappuccetto Rosso viene violata dal padre/Lupo, figura che la seguirà/perseguiterà per tutta la vita (responsabile forse della crudeltà della donna).
Non c’è dunque nessuna redenzione nemmeno dopo l’incontro con il figlio strappatole in giovane età, per Lucrezia. Nessuna gioia, nessuna possibilità di essere felice o amata. Abusata da bambina, usata come merce di scambio politico dal padre e dal fratello, alla donna non resta che cercare la propria strada servendosi dell’unica via insegnatale: la violenza.
Proprio per questo motivo la regia della Paoli e tutta la dimensione scenica risulta credibile, convincente, realistica. Il mattatoio è la cornice perfetta per i luoghi del dramma, con la scrivania sormontata dall’aquila romana del duca Alfonso d’Este, il lungo sontuoso tavolo di palazzo Negroni e quella che sembra una segreta dove un gruppo di prostitute viene portato in scena in una grande gabbia.
Singolare come le grida di sdegno e le lamentele da parte del pubblico provengano quasi esclusivamente da spettatori di sesso maschile. Quasi come se risultasse “troppo” vedere rappresentata sul palcoscenico l’eterna violenza esercitata da parte degli uomini sul corpo delle donne.
La compagnia della tensione
La direzione di Yves Abel, Direttore Principale dell’Opera di San Diego, si sposa bene con l’allestimento teatrale, sottolineando dinamiche di tensione e ritmi frenetici. Ottima performance per il coro maschile diretto dalla Maestra Gea Garatti Ansini.
Marta Torbidoni, al suo debutto nel ruolo di Lucrezia, risulta apprezzabile per i virtuosismi, il timbro pieno in tutti i registri e dona al personaggio un interessante spessore, riscuotendo molti consensi da parte del pubblico. Al suo fianco Francesco Castoro/Gennaro, voce limpida ed espressiva, di particolare efficacia soprattutto nelle fioriture delicate. Colpisce però più di ogni altro, soprattutto per l’interpretazione teatralmente calzante di Maffio Orsini, il mezzosoprano francese Lamia Beuque.