Il 21 febbraio 1923 viene rappresentato per la prima volta al Teatro Manzoni di Milano l’atto unico L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello. Quasi un secolo ci separa da quell’evento, eppure il testo pirandelliano, uno dei più densi e profondi da lui scritti, si impone nell’oggi e fa sentire ancora la sua carica tematica, sviscerata sapientemente da questa nuova messa in scena ad opera di Gabriele Lavia (regista e interprete), coprodotta dalla Fondazione Teatro della Toscana e dal Teatro Stabile di Genova.
L'artista torna a confrontarsi con il drammaturgo agrigentino dopo il fortunato allestimento di Sei personaggi in cerca d’autore e nell’adattare il testo fa un lavoro di “commistione”, inserendo stralci di novelle esemplari per manifestare certi temi pirandelliani con le parole dell’uomo dal fiore in bocca, al quale sembrano cuciti addosso alla perfezione.
L’ambientazione scenica rappresenta la sala d’attesa di una vecchia stazione del sud Italia, con pochi e poveri elementi che ne sottolineano l’arretratezza: un grande orologio a muro non funzionante, una lunga e scura panca sulla quale passa le ore il protagonista in attesa dei treni e i cartelloni sbiaditi che segnalano gli arrivi e le partenze, affissi alle pareti. Disegnata da Alessandro Camera e realizzata nei laboratori del Teatro della Pergola la scenografia, con la sua imponenza, introduce immediatamente lo spettatore nel mondo dell’uomo dal fiore in bocca: un mondo ormai alla deriva pieno di rimpianti e di rimorsi, di solitudine, di rassegnazione e di malinconia.
L’incontro avvenuto per caso in piena notte con il cosiddetto uomo pacifico si dimostra catartico. Avendo perso il treno, questo si accascia sfinito e fradicio per colpa della pioggia sulla panca della sala d’attesa, non sapendo ancora chi sia il suo unico interlocutore. L’uomo dal fiore in bocca inizia pian piano a entrare in confidenza con lui, scavando lentamente nella psiche dell’uomo usandolo come pretesto per sfogare il male dell’anima che lo attanaglia profondamente: avendo da poco scoperto di essere vittima di una malattia incurabile, passa le notti vagando in solitudine mentre la moglie (Barbara Alesse), vana presenza che compare a tratti dalla vetrata della sala d’attesa quasi come una figura eterea, lo aspetta invano desiderando stargli vicino nel dolore.
Attraverso riflessioni ora provocatorie e pungenti, ora tristemente realistiche, l’uomo dal fiore in bocca espone prove ed esempi presi dalla vita quotidiana per dimostrare una qualche superiorità di questa sull’inevitabilità della morte e sulla finitezza dell’essere umano. Molto originali a livello drammaturgico le digressioni che il protagonista conduce sul rapporto tormentato tra marito e moglie, prendendo spunto dalla vita dell’uomo pacifico per avvalorare la sua tesi secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due universi paralleli e irrimediabilmente opposti. In Lavia, i temi pirandelliani rivivono nelle riflessioni allo stesso tempo ironiche e disperate del protagonista, vero “filosofo” e portatore di ideali alti.