Ritorna al Festival Verdi 2024 il Macbeth che Verdi presentò a Parigi nel 1865 col testo traslato in francese, dopo aver rivisto a fondo la primitiva versione del 1847; e con la medesima direzione musicale, che è quella magistrale di Roberto Abbado.
In forma scenica, finalmente: è la prima volta in tempi moderni, giusto che accada al Teatro Regio di Parma dal momento che l'esecuzione del settembre 2020 - soluzione imposta dalle restrizioni Covid 19 - si tenne nell'aperto del Parco Ducale in mera forma concertistica. La Dynamic la riversò in due CD vincitori d'un Premio Abbiati 2021, che commentammo allora (qui il link).
Tradurre è un po' tradire
Verdi provvide tutto sommato di buon grado a quella revisione, riguardante in buona parte la contorta psicologia dei protagonisti, poiché contava che in rinnovata veste e con i versi italiani del Piave l'opera riprendesse a girare l'Italia. Auspicio deluso, se alla Scala approdò solo nel 1880, e senza destare particolari entusiasmi.
La rinascita del Macbeth - l'opera più musicalmente densa, più densamente drammatica, più sperimentale di Verdi prima dell'Otello - avvenne solo trascorso un secolo. Grazie anche ad alcune incisioni discografiche che, pur con alterni risultati, diedero impulso al trionfale ritorno in repertorio: la RCA curata da Leinsdorf (1959), poi la Decca di Schippers (1964), infine due edizioni di assoluto riferimento: la DGG diretta da Claudio Abbado – che riprendeva un memorabile allestimento scaligero - e la EMI diretta da Riccardo Muti. Entrambe uscite nel 1976.
Grande prova direttoriale
Splendida peraltro anche la guida musicale che offre ora Roberto Abbado, replicando persino in meglio la precedente prova. Drammaturgicamente compatta ed elettrica, evoca misteriose, ovattate atmosfere che assecondano meravigliosamente il fluire musicale. Direzione vibrante, ma al tempo stesso vellutata e rotonda, dai tempi perfetti e mirabilmente equilibrata nei suoni; direzione che rende i vari gradienti drammatici con inesauste, sottili, distillate mutazioni di colorito, di dinamiche, di spessori sonori.
L'assecondano senza nessuna difficoltà l'Orchestra Filarmonica Toscanini – la stessa del 2020 - dai suoni nitidi e precisi, e l'impeccabile Coro del Regio dal timbro inconfondibile, curato al solito da Martino Faggiani. Commovente nel “O Patrie! ô noble terre!”, che poi sarebbe il nostro “Patria oppressa”.
Due protagonisti d'eccellenza
Ernesto Petti si mostra subito un Macbeth di superiore livello. Voce ampia e generosa, dalla condotta robusta e flessibile, dai sciolti legati, omogenea nell'intera gamma. E' un interprete spontaneamente lirico e molto espressivo, sa come scavare a fondo fra le pieghe del fraseggio verdiano, portando a compimento un personaggio a tutto tondo, introverso e tormentato, senza cadute di gusto.
Lidia Friedman è la miglior Lady che abbiamo potuto incontrare negli ultimi anni. Non solo poiché canta in modo encomiabile, tanto per agilità, pienezza e bellezza del timbro quanto nel procedere stilisticamente irreprensibile; ma anche per la densa resa della sua contorta psicologia, intrisa di sottile ed altera malvagità, di guizzi ferini, di impulsi rabbiosi. Basti vedere come nel banchetto, con stizza malamente contenuta, redarguisce a fior di labbra il consorte preda delle deliranti visioni. Per non parlare dell'angosciosa scena del delirio, tutta innervata da un'allucinata accentatura.
Contorni di lusso
Michele Pertusi offre un nobilissimo, imponente, squadrato Banquo; Luciano Ganci uno squillante e spavaldo Macduff, pur avendo sentito dei “O figli, o figli miei!” (qui “Mes fils! Mes fils chéris!”) - più dolenti ed accorati. A completare la compagnia, con buone singole prove, stanno David Astorga (Malcolm), Natalia Gavrilan (la Comtesse), Rocco Cavalluzzi (un médecin), Eugenio Maria Degiacomi (un serviteur/le sicaire/premiere fantôme).
Scena in sobrietà
L'allestimento porta l'impronta del regista francese Pierre Audi, in una visione scenica lucidamente sobria, un po' irreale ed astratta; a dispetto di ciò, teatralmente intensamente drammatica, ben memore della fonte shakespeariana, immergendo lo spettatore in un climax di forti e cupe emozioni. Molto curata nella cura della singola recitazione, volutamente adotta un minimo muoversi delle masse, pur rendendole assai espressive; e fa un accorto uso d'un grande praticabile centrale, che spalanca una quarta dimensione.
E' una visione che trova sponda nelle lineari, minimalistiche scenografie di Michele Taborelli, che lasciano il palco pressoché vuoto, e nelle funzionali e pregnanti le luci di Jean Kalman e Marco Filibeck. Magari lo specchiarsi sullo sfondo della sala del Regio è una soluzione suggestiva ma poco originale, più volte messa in campo; ma nella seconda parte l'intrecciarsi di enormi grate metalliche evoca bene il deviante labirinto mentale dei protagonisti, reso da Audi con accorti innesti descrittivi, come nel caso delle fantasmatiche apparizioni.
Consoni all'insieme pure i severi, elegantissimi costumi di Robby Duiveman, in bilico fra passato e presente; Pim Veulings ha ideato sintetiche e moderne coreografie per i ballabili, affidati a quattro soli danzatori.