L'ordine è quello cronologico: dopo l'apertura con Le Willis e Edgar, spetta alla Manon Lescaut proseguire il percorso del 70° Festival Puccini di Torre del Lago, tracciato da un decano del teatro ancora in splendida forma ed ancora pieno di idee, Pier Luigi Pizzi.
Responsabile artistico di quest'edizione 2024 che celebra i 100 anni dalla morte del Maestro lucchese, ha progettato un cartellone dall'offerta generosa, com'è giusto; ed ha inteso imprimere un segno distintivo e unitario ad una serie di lavori lirici dal carattere tra loro differente, quasi in una sorta di andamento ciclico.
Un muro di luci cangianti e un collaboratore prezioso
Certo, il palinsesto del Festival Puccini 2024 è stato disegnato da Pizzi pensando al pubblico in gran parte 'popolare' che lo frequenta da sempre – e quest'anno i capolavori pucciniani ci sono tutti - promettendogli spettacoli raffinati ma di facile, immediata comprensione, senza vani cerebralismi. Una serie di ricercate proposizioni, seguendo un filo logico facilmente avvertibile, replicando a Torre De Lago le positive esperienze direttoriali vissute una dozzina d'anni fa in un altro contesto 'generalista', lo Sferisterio di Macerata.
Le somme si tireranno alla fine. Per sé Pizzi ha tenuto Le Willis e Edgar, Tosca e Turandot. Per questa Manon si è affidato in toto al suo storico braccio destro, Massimo Gasparon, che curerà pure La bohème.
Onnipresente sullo sfondo il nuovo, smisurato led wall che domina il palcoscenico del Gran Teatro Puccini quale medium versatile per 'dipingere' le scenografie: qui prima una smisurata cattedrale per Amiens, poi il pretenzioso palazzo di Geronte, quindi il mare innanzi Le Havre e la goletta arriva, che imbarca le deportate, e lentamente se ne va. Infine, l'arroventato deserto dove la tragedia si consuma. Immagini pittoriche suggestive, emozionanti, in movimento continuo. Le ha elaborate con buona cura Matteo Letizi.
Il barocco pervade la dimora di Geronte
In scena Gasparon vuole ben poco, salvo porvi nei primi due atti un monumentale gruppo scultoreo con la citazione del Ratto di Proserpina del Bernini che, ruotando di 180°, rivela l'alcova serica di Manon racchiusa da fastose pareti barocche. Nei costumi evoca un '700 ornato e carico di colori, sommario e sin troppo patinato, se vogliamo; quanto alla regia punta al sodo, senza sbandamenti, ottiene una recitazione spontanea, muove le masse con accortezza senza dare impressione di sovraffollamento.
Il suo intervento drammaturgico procede in maniera lineare, e molto efficace; forse un tantino sovraccarico ma indubbiamente acconcio al contesto pop in cui va ad inserirsi. Sobri gli apporti coreografici curati da Gheorghe Iancu, che però nell'Intermezzo distraggono dall'ascolto di una delle più belle pagine strumentali pucciniane. Tra l'altro, inspiegabilmente spostata fra il terzo e quarto atto.
Due voci buone per Puccini
Soprano molto versatile, Alessandra Di Giorgio tratteggia una Manon vocalmente garbata, dal bel timbro giovanile e di vellutata rotondità; dosa attentamente accenti, colori e gradazioni, 'sente' il personaggio e ci mette la giusta dose di passionalità. Troppe mossettine e leziosità, forse: ma non si capisce se ci mette del suo, o la spinta giunge dalla regia.
Il Des Grieux di Andeka Gorrotxategi possiede un giovanile mordente, ed è sorretto da una spiccata personalità e da una luminosa vocalità, così agile che gli permette quei facili squilli cui ci ha abituato. Pare qui però contentarsi di ciò, e non va alla ricerca di tutte le sfumature necessarie; e poi non sembra in buona serata, l'intonazione è a tratti ondivaga, l'emissione talora forzata.
Nicola Farnesi canta niente male, ha buona voce, è un incisivo e baldanzoso Lescaut; Andrea Concetti appronta un misurato e persuasivo Geronte; Matteo Roma ci propone un irruente, estroverso Edmondo.
Affidati a gente di sicuro mestiere i ruoli di contorno: Elena Belfiore propone con garbo la serenata del Musico; Saverio Pugliese è il Maestro di ballo ed il Lampionaio; Eugenio Maria De Giacomi l'Oste e il Comandante di Marina; Francesco Lombardi il Sergente degli arceri.
La direzione, un'occasione mancata
Delude la guida musicale di Beatrice Venezi, che porta avanti una concertazione senza un vero respiro, senza personalità, senza una visione unitaria. Inciampa in qualche scollegamento con la scena, per di più; ed offre all'ascolto solo una minima varietà di tinte e di timbri. Cosa grave, in un'opera poi che di spunti, in tal senso, ne offrirebbe a iosa, ad iniziare dall'ardente Intermezzo da lei sciolto sommariamente.
Al netto del giudicare un'esecuzione all'aperto, quando qualcosa inevitabilmente si perde per l'aria, sotto la sua bacchetta i chiaroscuri sono assenti, gli episodi di conversazione minimizzati, i suoni risultano spigolosi e vaghi; ed il metronomo – non sempre quello giusto, poi – impera da capo a fine.
Il Coro del Festival, guidato da Roberto Ardigò, assolve con correttezza il suo compito.