Pubblico entusiasta per la Maria Stuarda di Davide Livermore, uno Schiller ibridato in opera rock cinematografica: con tanto di effetti speciali surround sparati all'improvviso e a bruciapelo da casse che si trovano alle spalle dello spettatore.
Il folto pubblico under 25, che rappresentava i due terzi dei presenti in sala, si è entusiasmato, con applausi a scena aperta e 10 minuti abbondanti di applausi finali. Il pubblico “tradizionale”, diciamo così, si è eccitato un po' meno.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Ma se lo scopo era quello di avvicinare i più giovani ai grandi classici del passato, lo scopo è stato pienamente raggiunto. D'altronde non è un giorno che Livermore ripete il suo mantra: bisogna rinnovare il teatro non solo sul palcoscenico ma anche in platea, portando in sala le nuove generazioni. Altrimenti il teatro muore in modo direttamente proporzionale all'innalzamento dell'età media degli spettatori.
Livermore in questo Maria Stuarda si è dimostrato fedele anche all'altro suo mantra, e cioè il perfetto approccio filologico all'opera classica dal punto di vista della recitazione: con le innovazioni che arrivano a piene mani solo dove si può intervenire senza snaturare il pensiero dell'autore, e cioè appunto nella messa in scena.
Una regia dominante
La mano di Livermore si vede appena si apre il sipario. L'allestimento scenico è di Lorenzo Russo Rainaldi: ma lo scenografo deve essersi confrontato parecchio con Livermore. L'influenza del regista, indubbiamente uno dei più grandi artisti a livello internazionale, si vede infatti appena si alza il sipario.
La distribuzione degli spazi e delle linee è inequivocabilmente livermoriana, con l'escamotage della scala avvolgente che permette di avere spazi scenici su tre livelli. Eppure rispetto ad altri allestimenti che hanno visto Livermore alla regia (soprattutto nell'opera lirica) questa volta la scenografia è quasi scarna, asciutta, essenziale.
Le luci di Aldo Mantovani, con potenti iniezioni di colore rosso, contribuiscono a ottenere questo effetto di scena scarna ma al contempo profonda ed evocativa. Luci e regia non danno l'impressione di essere al servizio della recitazione: sono invece così potenti e invadenti da diventare essere stesse protagoniste, praticamente sullo stesso piano delle due regine.
E per fortuna che Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi sono attrici di altissimo livello: due attrici "normali" avrebbero rischiato di essere offuscate dalla macchina scenica e dagli effetti speciali audiovisivi.
La vita o la morte sono affidate al caso
Coraggiosa, innovativa e brillante l'idea di spartire i ruoli tra Pozzi e Marinoni. Un giorno Pozzi interpreta Elisabetta e Marinoni interpreta Maria; il giorno dopo può accadere il contrario. L'ipotetica è data dal fatto che a decidere i ruoli non è il regista ma una piuma lasciata cadere da un angelo: a seconda di chi tocca, si decide chi è Maria e chi è Elisabetta.
Questo comporta il fatto che Pozzi e Marinoni hanno dovuto imparare entrambe le due parti complicatissime e piene di pathos opposto, con soli pochi minuti per entrare nell'abito mentale di una o dell'altra.
Probabilmente questo escamotage scenico suggerisce una delle chiavi di lettura di questo Maria Stuarda: spesso la vita è dominata dal caso, e sempre il caso può mettere su una strada che porta alla vita o alla morte, alla felicità o alla tragedia. Qui sappiamo come va a finire, ma se ci atteniamo solo a quello che si vede in scena, la sorte di Maria resta in bilico fino all'ultimo.
Nello spettacolo che abbiamo visto Pozzi era Elisabetta I, mentre Marinoni era Maria Stuarda. Schiller e Livermore scavano nella psicologia delle due regine protagoniste, dimostrando che è vero tutto e il contrario di tutto.
Maria sembra l'incarnazione della femminilità debole, Elisabetta è inflessibile e volitiva come il più duro dei suoi soldati. Poi durante l'incontro tra le due regine (che nella realtà storica non c'è mai stato) i ruoli si ribaltano. Nello scontro frontale le due psicologie si rivelano come le due facce di una stessa medaglia, in bilico tra volizione, sentimento e ragione di stato.
Il confine tra vittima e carnefice, tra colpa e innocenza si rivela quanto mai labile. Alla fine una muore, ma l'altra si ritrova a fare i conti con la sua disperazione e solitudine, e con la presa di coscienza di non essere libera ma di dover fare ciò che la ragione di Stato le impone.
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Schiller e le chitarre elettriche
Il meccanismo teatrale fila via liscio per più di tre ore di spettacolo, con cinque attori a impersonare gli altri 12 ruoli del dramma (oltre alle due regine). Tutti bravi, ma non si capisce l'utilità/scopo di fare recitare otto ruoli maschili a tre attrici donne.
I costumi delle due regine sono una sciccheria firmata Dolce & Gabbana, e alludono all'epoca storica di cui si parla. I costumi degli altri personaggi, firmati da Anna Missaglia, sono invece rigidamente fuori da stringenti riferimenti temporali, a suggerire il fatto che le psicologie e le dinamiche ricostruite in questo dramma potrebbero essere più attuali di quanto sembra.
Chiusura su un'altra delle scelte dirompenti di questo Maria Stuarda: la musica originale di Mario Conte e Giua. L'artista genovese, che indossa un costume a metà strada tra quello di un ussaro e di un domatore, suona il basso e la chitarra elettrica ai piedi del palco e a volte direttamente sul palcoscenico, a enfatizzare i momenti di maggiore tensione emotiva.
Peccato che spesso la musica copra il parlato e funga da elemento di disturbo, catalizzando l'attenzione sulla chitarrista invece che sui personaggi in scena. Ai numerosi under 25, invece, gli assoli di chitarra elettrica distorta sono piaciuti tantissimo.