Lirica
MEFISTOFELE

“Mefistofele” torna a Venezia dopo 55 anni, fra infiammati tifosi del calcio

Mefistofele
Mefistofele © Michele Crosera

Testimone un tempo della rinascita del Mefistofele dopo il clamoroso fiasco milanese del 1868, Venezia accoglie l'opera di Arrigo Boito dopo ben 55 di assenza dalla città. 

Fatto singolare, se si pensa che dal 1879 - tre anni dopo dopo esser apparso in Laguna al Teatro Rossini, già di San Benedetto - andò in scena alla Fenice con cadenza pressoché decennale sino al gennaio 1969 - ultima apparizione - inaugurandovi anzi più d'una stagione. Forse per mancanza di protagonisti di spicco, dato che l'opera è sopravvissuta sopra tutto in quanto cavallo di battaglia di Schaljapin, De Angelis, Christoff, Siepi, Ghiaurov, Ramey.

Da cinque a tre ore

Tagliato di circa metà del suo materiale - compreso l'Intermezzo sinfonico - per ricondurlo a dimensioni ragionevoli, Mefistofele venne ripresentato al Comunale di Bologna nel 1875, poi ripensato per le due riprese veneziane del 1876 e 1879; ed infine ulteriormente affinato per il trionfale ritorno alla Scala, nel 1881. 

Una progressiva revisione che, a parte i tagli e gli innesti, smussava probabilmente talune asperità musicali, sicuramente talune frecciate antireligiose e politiche da enfant terrible del primigenio libretto. E che, nel suo insieme, rivelando le suggestioni da Meyerbeer, Gounod, Wagner e - volente o nolente - un po' dal Verdi di Aida, finiva per allontanarsi dal proclamato intento rivoluzionario iniziale, riavvicinandosi alla 'formula' tanto deprecata del melodramma allora in voga. 

Insomma, abbiamo un iperbolico coacervo di buone intenzioni, non tutte andate ad effetto. Tanto che un Gui, nel 1955, volle incidere il Mefistofele privato del scialbo quarto atto di Elena e Pentalis.

1919, Toscanini mette le mani all'orchestrazione

Non basta. Nel 1919, un anno dopo la morte di Boito, Arturo Toscanini pose mano alla partitura appesantendone l'orchestrazione, riconfigurazione in cui da allora s'è poi eseguita. Ma ora, grazie al lavoro musicologico di Antonio Moccia e alla recente edizione critica Ricordi, Nicola Luisotti riporta sui leggii la partitura boitiana proposta a Venezia nel maggio 1876 con la direzione di Franco Faccio. 

E che, grazie anche al rovente apporto dell'Orchestra fenicea, risulta di indubbia e maggiore attrattiva. Anche perché avvalorata da una direzione dai diversi pregi: logica scelta dei tempi, buon equilibrio fra esigenze vocali e quelle espressive, accompagnamenti sfumati ed adeguati. Così come, in presenza delle dirompenti e spesse masse sonore immesse qua e là da Boito, ascoltiamo sonorità cromaticamente vivide, però mai esageratamente infuocate e ridondanti.

Un protagonista di assoluto spicco

Alex Esposito, nel ruolo eponimo, conferma la naturale predisposizione alle figure sulfuree e demoniache, come già appurato nel Faust di Gounod dato due anni fa in questa stessa sala. Da una parte, spicca la perfetta adesione alla bieca malignità del suo personaggio, grazie alla spiccata attitudine attoriale; dall'altra, balzano in primo piano le grandi risorse musicali, sia quando la voce deve svettare in alto, sia nei centri, sia quando scende alle righe basse del pentagramma. A parte l'imponenza vocale, a rendere il personaggio a tutto tondo, conta molto poi un fraseggio insinuante ed ironico, e la considerevole profusione d'accenti. 

Piero Pretti canta il suo primo Faust boitiano, ma l'impresa riesce solo in parte: al di là dell'indubbio impegno, la linea vocale a tratti risulta inespressiva, oltre che diseguale; manca il trasporto e l'abbandono; i momenti buoni («Dai campi, dai prati» di discreta poesia) si alternano a quelli meno. «Giunto sul passo estremo», per dire, risulta un tantino freddo e generico.

Piero Pretti e Alex Esposito

Margherita, commovente ingenuità

Terza protagonista è Margherita, consegnata a Maria Agresta. Il soprano campano, si sa, ha voce di bel colore, morbida, calda, e si porta in dote un fraseggio fine, oltre che un''impostazione generale a prova di bomba. Ed ha il giusto temperamento per dar corpo all'ingenua e sventurata fanciulla, e piena concretezza alla scena madre del carcere, prendendo le mosse da un «L'altra notte» di lancinante delirio. Il mezzosoprano bulgaro Kamelia Kader se la cava benissimo nei due ruoli di Marta e Pantalis. Maria Teresa Leva è una raffinata Elena; Enrico Casari interpreta abilmente sia Wagner che Nereo.

Un forte applauso lo dobbiamo al Coro della Fenice, che sotto la guida di Alfonso Caiani emerge per le sue qualità. Ed un altro ai Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D'Alessio.

Maria Agresta

Regia spiazzante, ma funziona

La regia del consolidato tandem formato da Patrice Caurier e Moshe Leiser (anche scenografo, quest'ultimo), viaggia in uno spazio scenico alquanto rarefatto e in un clima di fredda atemporalità, interrotta solo dalla kermesse di Pasqua a Francoforte, ambientata stavolta – udite, udite – sugli coloratissimi spalti di uno stadio, fra deliranti tifosi. Idea sconcertante, spiazzante anche, ma alla fine funziona. Come funziona bene tutto il resto, drammaturgicamente parlando, nella sua fascinosa visionarietà, salvo qualche strano inciampo. 

La doccia di Mefistofele alle battute d'apertura, per esempio. I costumi, contemporanei e pertinenti, sono di Agostino Cavalca, che veste in modo sempre diverso il protagonista: indizio palese della multiformità del Male. Etienne Guyol è il fantasioso video designer, Christophe Forey un vigoroso light designer. Beate Vollack si prende carico delle coreografie, tutte ben realizzate.
 

Visto il 14-04-2024
al La Fenice di Venezia (VE)