Le avanguardie della prima metà del Novecento hanno affrontato con grande determinazione, se non a volte con deliberata ferocia, il problema del testo e del suo rapporto con la teatralità complessiva della messa in scena. La polemica dei cosiddetti “riteatralizzatori” contro la parola, la trama ed il codice stesso rappresentato dal testo letterario ha rappresentato un punto altissimo nel dibattito sull’essenza del teatro come linguaggio. Le riflessioni provocatorie di Artaud, Gordon Carig oppure Appia, sono diventate e costituiscono tuttora dei fondamentali riferimenti teorici per le teoria teatrologica, che ha poi condotto alla definizione di concetti chiave per la critica del secondo Novecento, quali la “scrittura scenica” o il “testo spettacolare”. Si suggeriva, appunto, all’epoca di Craig che, come già accadeva per il teatro elisabettiano tra ’500 e ‘600, il testo di riferimento di uno spettacolo non fosse quello di partenza, bensì quello di arrivo e che il testo scritto potesse essere al massimo uno dei materiali che l’artista di teatro poteva utilizzare per creare il linguaggio autonomo della scena.
La cifra stilistica portata avanti dalla produzione di una metodologia scenica come quella dell’improvvisazione teatrale sembra richiamare questo dibattito storico sul rapporto tra testo e teatro e di riflesso sui codici stessi della scena. Se la commedia dell’arte si basava su uno “scenario” seicentesco per produrre azione e per mandare avanti dignitosamente una vicenda drammatica, l’attuale improvvisazione teatrale sembra partire apparentemente dal nulla. Per inaugurare Impro Festival Teatro di Napoli lo spettacolo “Microstorie” – che ha visto in scena la bella performance di Tiziano Storti, Mariadele Attanasio, Susanna Cantelmo e Giorgio Rosa – ha sviluppato una moderna drammaturgia dell’improvvisazione a partire non solo dai messaggi degli spettatori raccolti prima dello spettacolo e selezionati casualmente dagli attori in scena, ma soprattutto attraverso l’attenzione del pubblico, le sue risate e le sue pause, e la capacità attorica di coglierne suggerimenti e suggestioni. Il pubblico, appunto, sembra rappresentare un personaggio ai bordi del palco, capace di indirizzare la scena in determinate direzioni e soluzioni.
L’elemento più interessante di questo tipo di messa in scena – che parte forse da un dibattito molto colto per arrivare ad una dimensione estremamente ludica, satirica ed interattiva – non consiste tanto nella capacità e nella bellezza di intersecare storie che si muovono nella Praga di Kundera o sul set di un film porno, né tantomeno nella ottima abilità del singolo attore improvvisatore di calarsi in personaggi ben costruiti o di svilupparne trame coerenti e spesso divertenti, quanto nel vedere il processo creativo in azione, una drammaturgia prendere corpo, una scena farsi scrittura. Questo impressiona molto: l’affiorare di una drammaturgia apparentemente senza guida registica e la produzione di una partitura finale che si costruisce a partire da una parola letta in una boccia di vetro o da un sospiro emesso dello spettatore dell’ultima fila. In qualche modo l’avanguardia si fa popolare ed il testo arriva solo alla fine, e non sarà più ripetibile.