Ci sono capolavori che il pubblico conosce e ama; altri, meno numerosi, che la gente sente cuciti addosso, come si trattasse di un vestito su misura, che pure dà prurito. Morte di un commesso viaggiatore, scritto da Arthur Miller e pubblicato nel 1949, appartiene senz’altro a questa seconda categoria.
In questa versione, diretta da Leo Muscato, troviamo Michele Placido nel ruolo del protagonista (Willy Loman) e Alvia Reale in quella della moglie accudente e devota (Linda Loman).
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Un intreccio tra realtà e allucinazione
Il telone sul palco che accoglie gli spettatori, fin da prima che lo spettacolo abbia inizio, parla chiaro: raffigura il profilo grigio e caliginoso d’una metropoli qualsiasi, con tanto di grattacieli e fumi. Poi il telo viene sollevato e la recita comincia: siamo nella New York degli anni ’40 del Novecento.
Willy Loman – interpretato da un indiscutibile Michele Placido – è un anziano commesso viaggiatore nella misura in cui si guadagna da vivere andando a vendere stoffe girando su e giù per il New England, avvalendosi della sua parlantina e della sua fiducia nelle proprie capacità di convincimento.
Per tutta la vita ha inseguito il sogno americano del successo e della felicità a tutti i costi, quella che consiste nel vedere che c’è qualcuno dietro di sé per potersi sentire superiori e poter vantare, davanti agli altri e a se stessi, di essere qualcuno che conta nella società, qualcuno che le persone rispettano e di cui ammirano le abilità professionali, nonché lo status economico.
Diciamolo subito, senza giri di parole: Willy non ce l’ha fatta; non ha raggiunto quella felicità tanto vagheggiata e inseguita, con una tenacia a tratti allucinata. Continua difatti a sperare che la svolta della sua vita sia imminente e che basterà un nonnulla – un incontro, quello giusto, una conversazione, una settimana – per realizzarla.
Altre volte riversa questo sogno, incallito e duro a morire, sui figli, che educa in maniera vacua, senza offrirgli il valore della fatica e della lealtà. Tutto ciò che conta, non si stanca di ripetere ossessivamente, è farsi benvolere dalla gente, così da riuscire ad intercettare i contatti utili a fare carriera e ad avanzare nella scala sociale; che è mobile tanto quanto traballante.
La trama si dipana in un intreccio di epoche e ambientazioni diverse. La scenografia risulta, a ben ragione, dinamica; rappresenta l’interno di un’abitazione le cui pareti vengono di continuo ora chiuse ora aperte dagli attori in scena, così da simulare l’avvicendarsi di luoghi e ricordi diversi.
Attualità della critica al grande sogno americano
Nemmeno i due figli maschi, tuttavia, riusciranno a diventare qualcuno. Uno lavora senza grandi soddisfazioni e passa da una relazione sentimentale all’altra, senza cura e senza rispetto. L’altro, che è il personaggio forse più complesso, si sente inadeguato ai ritmi lavorativi, frenetici e spasmodici, che gli impediscono di godersi le piccole cose della vita: il sole in faccia e un bagno al mare.
Sembra quasi rivendicare la libertà di non voler essere ambizioso, il che suona come un’eresia alle orecchie del padre e dell’intera società che lo guarda. Lo stanco venditore, dal canto suo, solo a tratti e per poco riesce a contentarsi della vita che nei fatti conduce; della moglie – un’Alvia Reale che dà l’ennesima prova di un’interpretazione superba – che è sempre lì a cercare di consolare le sue frustrazioni, accudendole con tutto l’amore e l’abnegazione di una sposa totalmente dedita al marito.
Le delusioni e gli slanci che il (troppo) grande sogno americano induce e inculca sono ben presenti agli spettatori, tanto ieri quanto oggi. La prima volta che andò in scena Morte di un commesso viaggiatore, nel 1949, alla fine dell’ultima replica successe una cosa anomala. Il pubblico in sala non applaudì, ma si alzò in piedi compatto, come stesse eseguendo un rito che lo vedeva, suo malgrado, protagonista.
È una messinscena fatta su misura per tutti noi ormai, americani, italiani, cinesi; eppure è pruriginosa perché osa criticare molto di ciò in cui crediamo.