Renzo Martinelli dirige Nella solitudine dei campi di cotone, testo del 1986, scritto dal drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès. Protagonisti sono due uomini – un venditore e un (potenziale) cliente – intenti a negoziare una merce senza nome. Ne nasce un gioco di manipolazione e seduzione senza esclusione di colpi, tra eccessi di arroganza e un barlume di umiltà.
Lo scontro tra due isolate solitudini
Venditore (Giuseppe Sartori) e cliente (Cristian Giammarini) si incontrano “nell’ora che volge al crepuscolo” in un luogo indefinito e isolato, dove il buio ha la meglio sulla luce. Il venditore sembra essere molto sicuro di sé, ma il cliente gli tiene testa, fino a farlo vacillare nel suo proposito (soddisfare un bisogno), che è anche la sua unica certezza.
Un incontro (apparentemente) casuale finisce per rivelare un legame indissolubile, generato dalla necessità di sfuggire a un senso di solitudine che lascia senza scampo.
La parola come arma
I due protagonisti sembrano coinvolti in una sorta di tiro alla fune, dove, tra avanzate e retrocessioni, l’oggetto del desiderio è il desiderio stesso. In un continuo attirarsi e respingersi, la parola diventa un’arma e il regista concede una “pausa drammaturgica” dal testo, durante la quale Cristian Giammarini scarica la tensione esibendosi in alcuni passi di tap liberatori.
La violenza non avviene tramite la gestualità, ma si consuma negli sguardi reciproci tra i due; gli stessi sguardi del pubblico che Giuseppe Sartori attira con sorniona disinvoltura, percorrendo di tanto in tanto la platea.
Nonostante questo accattivante gioco di sguardi, quella a cui il pubblico assiste resta una prova d'attore da manuale e come tale si esaurisce, riflettendo sostanzialmente il timore di precipitare ancora una volta in quel senso di solitudine generato dalle platee rimaste vuote troppo a lungo.