Chi conosce la storia di questa longeva compagnia dialettale, con “Non ci resta che ridere” potrebbe rimanere un po’ perplesso. La nuova rivista si stacca infatti in maniera piuttosto netta dal passato.
Chi conosce la storia di questa straordinaria e longeva compagnia dialettale, con Non ci resta che ridere potrebbe rimanere un po’ perplesso. La nuova rivista – riveduta e corretta in nome dell’innovazione – si stacca infatti in maniera piuttosto netta dal passato, e lo fa con l’ardimentoso accostamento al film di Benigni e Troisi, in cui i due amici tornavano indietro nel tempo.
Qui i Colombo, con uno strambo artifizio che parte dalla Gioconda al Louvre, si ritrovano nel “quasi 1500”, con Leonardo intento a dipingere la celebre Monnalisa. Nel dipanarsi della storia, la trama segue in modo abbastanza aderente il film; un esempio sono le canzoni che i Colombo cantano a Leonardo Da Vinci (“Fratelli d’Italia” e “Nel blu dipinto di blu”), e forse non sarebbe stato male uno sforzo aggiuntivo per discostarsi dall’originale.
Lo spettacolo dei grandi assenti
Il testo ha senza dubbio delle potenzialità, ma non “tiene” – quantomeno non lo fa in maniera costante e coerente; le scenette – pur divertenti – sembrano costruite singolarmente senza un incastro concreto nel quadro complessivo, con il risultato di vedere un mosaico colorato ma dai contorni indefiniti. Ne risentono soprattutto testi e regia, con tempi a volte morti in cui il pubblico segue e occhieggia, ma si aspetta qualcosa in più.
Pesano senz’altro alcune scelte “forti”, che lo rendono “lo spettacolo dei grandi assenti” anziché dei presenti: manca la Pinetta (il compianto Alberto Destrieri, ma qui non per scelta), manca il Giuan storico, Luigi Campisi, che era un’asse portante di comicità, e poi mancano i cortili e tutti i loro personaggi.
Non da ultimo, si sente la mancanza del Grande Protagonista, il Dialetto: i dialoghi sono molto italianizzati e le battute della Teresa (peraltro alcune già sentite), vengono spesso tradotte in consecutio, spintarella di cui francamente non se ne sentiva l’esigenza (soprattutto a Milano).
Un carosello di assenze che non riesce a innescare quella catena non interrotta di risate, come direbbe Manzoni. Si ride sempre, ma si ride un po’ meno: sembra quasi venuto a mancare quel collante che “legava” le battute – che mentre ancora ti sganasciavi per quella precedente, eri già pronto a ridere per quella successiva.
Le garanzie evergreen
Nonostante queste lacune, la garanzia è la Teresa, un Provasio in ottima forma, anche se orfano di due spalle importanti come Destrieri e Campisi; messe in naftalina quasi tutte le donne di cortile, lo spettacolo in buona sostanza è quasi un one-Teresa-show, cucito su misura per il capocomico.
Del resto, a occhio esperto è evidente che anche il ruolo della Mabilia (Enrico Dalceri) è marginale rispetto al passato, spazio guadagnato dalla nuova spalla della Teresa, il brillante Maicol Trotta, che interpreta lo strambo assistente di Leonardo Da Vinci, nonché un antesignano del Berlusca. E’ proprio il giovane e bravissimo Trotta (che però non parla dialetto) a essere la grande rivelazione di questo show, il che riporta ancora una volta alle perplessità d’esordio: ma che ci azzecca coi Legnanesi?.
Balletti e costumi favolosi (per usare un termine caro a Provasio), sempre affidati alle sapienti mani di Dalceri, che quest’anno ha fatto le cose ancor più in grande e che distraggono un po’ lo spettatore da una trama disadorna.
Una poltrona per… due Giuan?
Lasciate ogni nostalgia o voi che entrate: capitolo a parte merita Lorenzo Cordara, che sostituisce nel ruolo del Giovanni il monumentale – e non per decesso – Luigi Campisi dopo quarant’anni di onorato servizio.
A lui va il merito del coraggio, valore non affatto scontato tra gli artisti, perché riesce a salire su quel palco con il peso di un’eredità che può far male. Il suo Giuan è senz’altro da rodare, e in diversi passaggi la sua gestione del personaggio cerca di agganciare un po’ troppo Campisi, da cui si discosta sulla parte dialetto, che Cordara limita al minimo sindacale – in continuità con le scelte di tutti i dialoghi.
Per chi vede i Legnanesi per la prima volta, la sua performance è a ogni modo positiva, ma attenzione: il pubblico “storico” deve fare l’enorme, ma doveroso sforzo di astrarsi ed evitare inopportuni e dannosi paragoni con il predecessore.
Tradizione e innovazione possono coesistere?
In definitiva, uno spettacolo piacevole per chi lo vede per la prima volta, anche se resta il dubbio che la strada dell’innovazione possa diventare una china. Il rischio è di perdere terreno sulle nuove generazioni, anziché guadagnarlo: chi segue da sempre i Legnanesi, o chi decide di seguirli ex-novo, lo fa in coscienza per tutto ciò che hanno sempre rappresentato: la tradizione, quella vera, con i suoi indiscussi paletti.
D’altra parte, se per una compagnia dialettale “innovare” equivale a ridurre all’osso il dialetto e a togliere le ambientazioni nei cortili, allora si possono tagliare pure i balletti della rivista e si può anche dichiarare – legittimamente, beninteso – di voler perseguire un’altra strada, che non è detto che sia un insuccesso.
Tutto è lecito, purché vi sia alla base l’onestà intellettuale di dichiararlo in modo aperto, che tuttavia mal si sposa con quanto sinora asserito: “Ricurdevas, genti, che un popolo cal ga minga da memoria, al ga minga da storia…”.