Gli Oblivion non sono dei contaminatori di generi musicali e teatrali: sono loro stessi una contaminazione vivente. I loro spettacoli sono un guazzabuglio di suoni, note, parole, gesti, azioni, rumori, apparentemente senza capo né coda.
Durante i loro show ti ritrovi in una caduta verticale nel non-sense, nell’assurdo, senza paracadute: per poi scoprire che in realtà ti stai muovendo in orizzontale passando da un genere musicale a un altro, da un genere letterario a un altro, da un’epoca all’altra, seguendo il filo delle citazioni e dei rimandi. Oblivion Rhapsody, l’ultimo spettacolo del gruppo bolognese, conferma tutto il loro repertorio di 10 anni, lo riassume, lo condensa in un’ora e 40, e lo rilancia. Lo spettacolo è vorticoso: non fai in tempo a capire una citazione, che sei già a quella successiva.
Potremmo definirlo “pop-demenziale”: in ogni caso, si ride parecchio. Di solito gli Oblivion usano basi musicali: stavolta hanno scelto di fare tutto unplugged, mettendosi in gioco anche come musicisti. In realtà gli strumenti veri sono solo tre: il resto sono oggetti a casaccio.
In casa Oblivion tutti fanno tutto
Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli sono attori, cantanti, musicisti, mimi, cabarettisti, clown, imitatori. Non passano da una specialità all’altra: fanno tutto insieme. Dicono di ispirarsi al Quartetto Cetra, a Giorgio Gaber e ai Monty Python, ma sono molto più accelerati. Il regista Giorgio Gallione cura la messa in scena, ma poi fa la cosa più sensata: lascia le briglie sul collo a questi cinque scatenati.
Teatro, cinema e musica tutto insieme
Lo spettacolo? Immaginate di prendere la letteratura dall’anno mille a oggi; aggiungete la televisione, il teatro, il cinema, la musica colta e popolare dell’ultimo secolo: poi mettete tutto nel frullatore. Vi ritrovate le parole di Shakespeare dentro le canzoni di Gianni Morandi; I Promessi Sposi con Lucio Dalla, i Queen, i Beatles, Marco Masini, Umberto Tozzi e chissà chi altro; la Bibbia condensata; Mina che esce fuori da tutte le parti. Letteratura trasformata in trailer cinematografici, smontati e rimontati in modo assurdo.
E’ un divertimento brillante e intelligente, ma colto solo fino ad un certo punto: in realtà è una spolverata di tutto, prediligendo temi nazionalpopolari. C’è lo svacco: come il M’an do vai, se la banana non ce l’hai? che scatta appena qualcuno dice la parola rivista. O lo scopino del wc usato come microfono.
Ma è anche maestria. Provate voi a fare una conversazione tra cinque persone, che si chiamano A,E,I,O,U. Ogni persona pronuncia frasi di senso compiuto, ma con parole che contengono un’unica vocale: la sua. E avete mai cantato una canzone pronunciando solo le vocali o solo le consonanti?