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PIAZZA DEGLI EROI

Piazza degli eroi: nichilismo e rassegnazione nell’opera-testamento di Thomas Bernhard

Piazza degli eroi
Piazza degli eroi © Lia Pasqualino

Apparso sulle scene nel 1988, un anno prima della morte del suo autore, Thomas Bernhard, di cui è considerato il testamento artistico, Piazza degli eroi ha dovuto attendere il 2020 per essere rappresentato sulle scene italiane in un allestimento firmato da Roberto Andò che, dopo un'anteprima in streaming ed il debutto a Napoli, ha intrapreso una fortunata tournée che ha toccato anche il Teatro Sociale di Brescia.

Una piazza dal passato inquietante

Ambientata nel 1988 in un appartamento viennese che affaccia proprio su quella Piazza degli eroi nella quale esattamente 50 anni prima Hitler aveva annunciato ad una folla acclamante l’Anschluss, ovvero l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, la vicenda si svolge il giorno dopo il suicidio di Josef Schuster, un professore ebreo, morto dopo essersi lanciato da una delle finestre di quell’appartamento. 


Come è nello stile di Bernhard, anche in questo testo pochissimo è lasciato al dialogo, che viene circoscritto all'ultima scena, preceduta da tre lunghi monologhi che man mano ci svelano la natura di questo convitato di pietra che, pur non apparendo mai, di fatto domina tutto il dramma. Dalla governante Signora Zittel, un’intensa ed incisiva Irma Villa, iniziamo a conoscerne il carattere, puntiglioso e intransigente ai limiti della maniacalità del Professore, che lo portava a lunghe disquisizioni sugli argomenti più futili quali la tecnica di piegatura delle camicie stirate. 

Dalla figlia Anna, la brava Silvia Ajelli, apprendiamo la storia della famiglia, costretta ad emigrare ad Oxford nel 1938 a causa delle leggi razziali e tornata a Vienna negli anni ’50 convinta di trovare una nazione diversa. Ma è dal racconto del fratello Robert, uno straordinario Renato Carpentieri, protagonista di un’interpretazione maiuscola, che emergono le cause del gesto.

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Una dura requisitoria contro l’Austria

Quella che Bernhard fa per bocca del suo personaggio è una vibrante requisitoria contro l’Austria di quel tempo, nella quale ignoranza e populismo stanno facendo riemergere istinti nazisti. Nessuno si salva da questo lungo atto d’accusa: il presidente della repubblica, definito furbo e falso, il presidente del consiglio, scaltro e maneggione, i sindacati, i partiti di destra e di sinistra che con la loro ipocrisia e insipienza hanno veicolato il ritorno del nazionalsocialismo in una nazione che definita “una cloaca spiritualmente vuota che implora a squarciagola il ritorno di un regista”. 

Una visione nichilista che i due fratelli hanno affrontato in modo diverso: se Robert ha trovato una sorta di equilibrio nell’autoesilio, ritirandosi in campagna e rinunciando alla lotta contro il deterioramento della società, Josef, che aveva fatto scelte più coraggiose -prima fra tutte quella di andare a risiedere proprio in quell’appartamento nel quale la moglie, efficacemente interpretata da Betti Pedrazzi, ancora sentiva riecheggiare le grida che provenivano dalla piazza nel lontano 1938- non ha retto all’idea di fuggire di nuovo e, nonostante fosse tutto pronto per un ritorno in Inghilterra, ha compiuto il gesto estremo.

Regia precisa e cast perfetto

Una coltre plumbea aleggia su tutto lo spettacolo che però, nonostante le due ore e mezza senza intervallo, non conosce momenti di cedimento o cali di tensione, complice una regia asciutta e precisa ed un cast praticamente perfetto. Forse nell’ultima scena si sarebbe potuta maggiormente esaltare la feroce ironia tipicamente viennese che emerge nel dialogo a tavola, questa scelta avrebbe probabilmente aggiunto un colore in più ad una tavolozza che, al contrario, si mantiene su tinte troppo omogenee, ma ciò non preclude la qualità dell’allestimento.  

Efficaci le scene di Gianni Carluccio che rappresentano un interno borghese ormai in disfacimento ed un parco dagli alberi mozzati, entrambi dominati da una distesa di scarpe che, se da una parte ricordano una delle manie del Professore, dall’altra non possono non rimandare ad uno dei simboli icastici dei campi di concentramento, a ricordare che non basta una società apparentemente ordinata per tenere sopiti i fantasmi del passato, come recita una vecchia battuta: “L'Austria ha i diplomatici migliori: sono riusciti a far credere a tutti che Beethoven sia viennese e Hitler tedesco”.

Visto il 16-02-2022
al Sociale di Brescia (BS)