Il Pignasecca e Pignaverde di Gilberto Govi, resuscitato da Tullio Solenghi: come dire lo stereotipo dell’avarizia genovese portato al parossismo, e reso iperbolico dallo svisceramento di ogni particolare. In scena tutto è volto a costruire questo quadro, ogni singola parola arricchisce e definisce l’immagine di questo commerciante tirchio per antonomasia, fino a renderlo paradossale: e quindi simpatico, tenero, inoffensivo e forse più vicino a noi di quanto ci piacerebbe ammettere.
L'importanza di essere Gilberto Govi
Solenghi non ha inventato nulla: ha solo clonato il Gilberto Govi originale e la sua recitazione. In questo Pignasecca e Pignaverde, però, Tullio Solenghi è andato oltre. Non solo ha clonato il protagonista: è riuscito a clonare anche il pubblico, ricreando quasi del tutto la speciale alchimia che si creava in sala tra la compagnia di Govi e il pubblico. Moltissime interruzioni per applausi a scena aperta, l’attesa per la battuta dove si sapeva che sarebbe arrivata, le risate negli stessi identici punti della celebre registrazione RAI del 1957.
Il progetto scenografico originale di Davide Livermore è stato riprodotto con efficacia da Anna Varaldo, che è anche costumista: perfetti e conformi all’originale gli abiti dei vari personaggi. Per fortuna gli attori non sono microfonati: come succedeva una volta. L’empatia con il pubblico ringrazia, e la voce arriva nelle ultime file senza filtri.
In questo spettacolo la parsimonia è anche visiva. Nessun colore, tutto sulle sfumature del bianco e del grigio; nessun oggetto scenico in movimento, tranne due porte (usate poco); nessun effetto luminoso né sonoro. La scena disegna un quadro di decoro austero, dignitoso, composto. E’ tutto pulito, in ordine, lineare: ma anche immobile ed emotivamente povero.
Il basso profilo voluto dal contegno genovese sparagnino si ripercuote anche sulla narrazione: non succede nulla, a parte la descrizione atomizzata delle tirchierie del protagonista. Felice Pastorino è il fulcro di tutto. La recitazione degli altri personaggi – i tipi umani della commedia - serve a mettere in evidenza il padrone di casa: e sono comprimari perfetti. Hanno spessore drammatico solo la moglie Matilde (Claudia Benzi) e la cameriera Lucia (Stefania Pepe) che tiene testa al padrone: e in questo sembra l’unica in grado di concepire uno stile di vita alternativo a quello di Pignasecca e la sua famiglia.
La comicità amara del genovese avaro
Nel primo atto, infatti, anche la figlia Amalia (Laura Repetto) è conforme a questo mood etico ed estetico: i suoi accenni di ribellione sono puramente esteriori, ipotetici. Ma Pignasecca Pignaverde non è i Maneggi per maritare una figlia, anche se l’argomento è più o meno similare. Qui lo spessore drammatico è superiore, il dilemma etico rilevante, la risata più amara e sconsolata.
Felice Pastorino si aggrappa al modus vivendi che lo accompagna da quando è nato, come se si legasse a uno scoglio nel mare in tempesta del cambiamento. Pastorino è Felice di nome e dolente nella realtà. Sotto sotto si rende conto che il suo mondo è al tramonto, stravolto dal nuovo che avanza. Felice Pastorino vuole far sposare la figlia Amalia a suo cugino Alessandro Raffo (Mauro Provano), tirchio come lui: ma dentro di sé lo sa che lui e suo cugino sono personaggi residuali di un mondo destinato a cambiare in tempi brevi sotto la spinta di forze nuove e formidabili come quelle che arrivano dall’America.
Il denaro non arriva più dalla parsimonia ma dalla spregiudicatezza imprenditoriale. Eugenio Devoto (impersonato da Matteo Traverso), giovane ex spasimante di Amalia che ha fatto fortuna in Argentina, e il suo datore di lavoro Manuel Aguirre (Stefano Moretti) stravolgono il salotto di casa Pastorino emotivamente e anche fisicamente, con i loro movimenti energici e la parlata decisa: che fanno contrasto con le movenze compassate e i mezzi toni della voce nei genovesi.
Il cambiamento psicologico ed emotivo non arriva come un fulmine a ciel sereno, ma un passo dopo l’altro. Lentamente ma inesorabilmente. All’inizio i personaggi sono statici come i loro soprammobili, poi tutto cambia sempre più velocemente.
Nel secondo atto la figlia prende in mano il suo destino e finge di scappare di casa con la complicità di tutti (madre compresa, che fa il salto emotivo per prima) per mettere alle strette il padre. Il vicino di casa, genovese anche lui ma già imprenditore moderno ed esuberante, funge da catalizzatore e rende irreversibile il processo di mutamento dei tempi e dei costumi.
Alla fine (spoiler) Felice Pastorino deve fare buon viso a cattivo gioco, soprattutto per l’amore che ha nei confronti della figlia, e si accontenta dei contentini formali che gli danno. Non a caso l’unica variazione della scenografia arriva a questo punto: le luci si abbassano; la famiglia si riunisce attorno alla televisione, il nuovo caminetto; i due fidanzati, finalmente liberi e felici, si baciano alla luce di uno spot che scende su di loro: ad indicare il nuovo e diverso futuro che li attende.