Sin dalle prime battute della performance Andrea Cosentino avverte chiaramente il pubblico: stiamo assistendo ad un’opera postuma, cioè ad una messinscena che ha luogo dopo la morte dello stesso autore ed attore ed è, lo comprendiamo immediatamente, la strategia più intelligente per fare un teatro che potrebbe essere assimilato a quel genere, oggi tanto di moda, che è l’autofiction, categoria letteraria che vive della paradossale combinazione di due universi apparentemente distanti, cioè l’autobiografia e la fiction.
A metà strada tra la conferenza oulipista ed il brioso e spumeggiante divertissement drammaturgico, Cosentino racconta e si racconta mercé un linguaggio rutilante che mastica argomenti e li restituisce in un bolo narrativo divertente e provocatorio, una modalità espressiva che sembra funzionale a rendere meno personale la forma così scopertamente personale della storia, realizzando splendidamente una metateatralità che, più modernamente di qualsiasi soluzione tradizionalmente metateatrale, stringe con sapienza una sorta di patto ossimorico tra la dimensione privata e pubblica dell’autore/protagonista della pièce.
Insomma, se è indubbio che dietro l’esperienza del bravissimo Cosentino, c’è la clownerie, il teatro di narrazione ed una certa frequentazione con forme affini al cabaret televisivo, la vera novità della sua apprezzabilissima sperimentazione pare risiedere in questa sorta di postmodernismo teatrale, ossia nella concreta ed efficace fusione di piani espressivi diversissimi all’interno di un pastiche autentico ed originale che alterna e confonde dimensione tragica e dimensione comica, aggressione sulfurea ai luoghi comuni della contemporaneità e riuso proficuo, meditato e deformante degli stereotipi convenzionali del mondo mediatico e della società dei consumi.