Con lo spettacolo Pupo di zucchero, Emma Dante torna a Lo cunto de li cunti di Gianbattista Basile e dopo La Scortecata, dove due uomini incarnavano da soli sia il re che le due vecchie, la regista palermitana ritrova una dimensione più corale, quella che probabilmente le appartiene di più e che meglio rende la dimensione favolistica di Basile.
La festa dei morti
Questa volta protagonista è un vecchio nzenziglio e spetecchiato, come lui stesso si definisce nella lingua pastosa e magica di Basile, in scena Carmine Maringola, che popola la solitudine e il buio della sua casa ricostruendo frammenti di vita passata, dove tutta la sua famiglia ridiventa carne e sangue.
“Non c’è giorno in cui c’è più vita in questa casa come il 2 novembre”, dirà infatti, mentre le sue tre sorelle si rincorrono in cuffiette e sottoveste, finché Pedro, focoso ballerino spagnoleggiante, riesce a catturare la simpatia di Viola e appartarsi con lei.
L’azione si svolge nel giorno dei morti, quando in molte zone del nostro sud si preparano dolci e biscotti, un pupo di zucchero come recita il titolo, che i bambini scambiano con regali che i defunti portano loro dall’oltretomba. Questi dolci antropomorfi altro non sono che le anime stesse dei defunti.
Una matassa di pasta lievitata e zuccherata, dunque, diventa il legame tra la vita e la morte. l vecchio protagonista la lavora, a morsi ne strappa pezzi in una sorta di impeto antropofagico, e quando si allontana per cercare ancora zucchero, gli altri, i morti, la tribù che lo circonda nell’oscurità delle sue stanze, si avventa su quella stessa matassa, la dilania, la palleggia fino a farne scaturire una danza, rituale, selvaggia e sbeffeggiante al tempo stesso.
Morte e vita si scontrano e quest’ultima sembra prendere assolutamente il sopravvento, perfino la violenza di zio Antonio che arriva a massacrare di botte zia Rita, sembra essere la dimostrazione di quanto la vita sia prorompente. Ma alla fine, inevitabilmente, la morte ritorna vincitrice e oscena nei corpi prosciugati delle sculture di Cesare Inzerillo, appese come pezzi macellati nella penombra di un cimitero dove brillano solo le fiammelle dei lumini votivi e dove il protagonista si riaddormenta, forse per l’ultima volta.
La lingua smarrita
Lo spettacolo si muove intorno alla lingua di Basile, un napoletano seicentesco non facile a un primo tentativo di comprensione, ma eccezionalmente musicale, nelle voci leggere e arcaiche di Nancy Tribona, Maria Sgro, Federica Greco, le tre sorelle del Vecchio, che intonano a più riprese la straziante melodia di Nun t’affaccià, che fa da contrappunto alle parole del protagonista.
Ed è proprio il protagonista interpretato da Carmine Maringola a smarrire gli accenti più pieni e profondi di questa lingua, cedendo a una recitazione molto spesso stentorea e didascalica. In questo si intravede il limite dell’intero spettacolo, nel continuo virare verso soluzioni che spiegano, chiariscono, esemplificano le parole del cunto.
Il racconto del Vecchio si rende immediatamente visibile, le azioni che si svolgono intorno a lui non aggiungono nulla di nuovo, iterano il già detto e l’intera messa in scena appare a tratti bloccata.
La stessa scena finale, suggestiva e a suo modo imponente, con i corpi/sculture che penzolano nelle cappelle cimiteriali, si trascina a lungo con gesti ripetuti dei personaggi che accompagnano il loro alter ego, il loro doppio mortale, riconsegnando alla morte quello che alla morte già appartiene.