Allargando il campo delle sue coproduzioni, il Teatro Sociale di Rovigo trova un'alleanza – le scenografie nascono nei suoi laboratori - con il Festival Donizetti di Bergamo, e porta a casa una recita del Roberto Devereux che l'ha appena inaugurato.
Un titolo un tempo popolare ma poi obliato, rientrato in repertorio grazie alla Donizetti Renaissance ed a grandissimi soprano quali Leyla Gencer, Joan Sutherland e Montserrat Caballé, che di Elisabetta – vera protagonista dell'opera, a dispetto del titolo – fecero un ruolo di riferimento.
Un ruolo molto amato da certi soprano
Lo amò poi Mariella Devia, lo vediamo per la prima volta affrontato da Jessica Pratt, in qualche modo una sua erede. Pregevole soprano lirico leggero, incline alle più impervie agilità – nessun sorvolo qui sugli scoscesi anfratti della tessitura - e dotato di un'estensione a dir poco portentosa, con qualche limite solo nei suoni più gravi (intelligentemente rimediato con accorgimenti tecnici quali l'affondo di petto), la cantante australiana debutta nell'ostica parte ottenendo risultati eccellenti, con una passionale interpretazione che raggiunge il culmine nel vaneggiante, pirotecnico rondò finale. La sala, in buona parte, pare venuta apposta per lei.
Un vero, superlativo tenore di grazia
La sua rivale Sara cade nelle mani di Raffaella Lupinacci; ed è una buona scelta, permettendo al giovane mezzosoprano calabrese un debutto importante. Bella voce brunita, ottimo canto, dizione scolpita e buona espressività: una interprete all'altezza d'una figura dal macerato travaglio psicologico.
Autentico tenore di grazia, John Osborn, praticamente senza rivali nel suo repertorio d'elezione, pone in atto per il suo Roberto non solo pienezza e bellezza di suono, doti che sfociano in un solido registro centrale ed in facili, funambolici acuti, ma anche tutto un prezioso apparato tecnico: impeccabile fraseggio, perfette messe di voce bellissimi legato, certi pianissimo e mezze voci da far invidia.
Una direzione solo professionale
Nottingham trionfatore a Bergamo, Simone Piazzola si trova costretto, in mancanza di un sostituto, ad esibirsi al Sociale malgrado un'indisposizione improvvisa e tremenda che riduce le sue forze al lumicino. Il pubblico comprende, e gli tributa un affettuoso applauso.
Nei ruoli comprimari troviamo David Astorga (Lord Cecil), Fulvio Valenti (cavaliere e familiare di Nottingham) e Ignas Melnikas (Gualtiero). L'opera si apre senza la dozzinale Sinfonia scritta dopo da Donizetti per Parigi; della direzione di Alberto Zanardi, alla guida dell'Orchestra Donizetti Opera, c'è poco da dire. Segue le orme di Riccardo Frizza, che l'opera l'ha diretta alla prima, tiene dritta la barra e porta la nave in porto. Il Coro, di buon livello, è fornito dall'Accademia del Teatro alla Scala, e preparato da Salvo Sgrò.
Un esperto di Shakespeare
A firmare l'allestimento è stato chiamato Stephen Landridge, attuale direttore del Festival di Glyndebourne. Sarà un esperto di teatro shakespeariano, ma la sua regia procede prevedibile, oziosa, molto convenzionale e caricata nei suoi simbolismi: come la smisurata scheletrica marionetta, che s'aggira abbigliata come Elisabetta, a far che non si sa.
La scenografia ricrea un'atmosfera claustrofobica, dallo spazio scenico ristretto: i cori infatti son stipati su alti steccati lignei. Si usa molto nero, soli guizzi di rosso corallo nel trono ed nel talamo che ad un certo punto prende il volo: un raduno di cose già viste e riviste. Anche il togliersi alla fine la fulva, da parte della Regina, è ormai un cliché fisso.
Brutta caduta di gusto il “gioco dell’impiccato”, fatto nel carcere dai soldati; per qual motivo poi Sara venga rappresentata visibilmente incinta, ci appare incomprensibile. Le scene ed i brutti costumi vagamente elisabettiani sono di Katie Davenport, le luci di Peter Mumford. Oltremodo irritante, però, l’abuso di fari abbaglianti – quelli che s'usano d'estate all'aperto per i cambi scena - rivolti verso le poltrone.