Lirica
SALOME

La Salome di Barrie Kosky, una scatola buia e antirealista

Salome
Salome

Palcoscenico chiuso da un pesante sipario, sala al buio, il rumore di un violento battito d’ali rimbalza come un volo nevrotico, uno spot illumina prepotente la protagonista in abito anni ’30 con copricapo a cloche ornato da lunghi tentacoli, mentre il giovane Narraboth intona il suo canto innamorato. 

L’incipit di questa Salome di Barrie Kosky immerge il pubblico del Teatro dell’Opera nel dramma del martirio di Jochanaan (Giovanni Battista).

Dal buco della serratura

Non c’è una vera e propria scena, l’azione si svolge all’interno di una scatola buia, i personaggi sono illuminati da un occhio di bue che li segue nelle loro evoluzioni, il punto di vista dello spettatore è quello del buco della serratura. 

Salome si innamora del profeta al solo ascolto della voce che lancia anatemi dalla cisterna prigione, quando è al suo cospetto prova a sedurlo, a baciarlo, gli strappa una ciocca di capelli, Jochanaan la respinge. Il tetrarca Erode, zio e patrigno, è soggiogato dalle grazie di Salome e non resiste alla seduzione quando questa gli chiede la testa del profeta che l’ha rifiutata, incoraggiata dalla madre Erodiate, vera anima nera della vicenda. Avviene la decapitazione, Salome, ancora follemente innamorata, finalmente riesce a baciare la bocca tanto desiderata, allora Erode, travolto dall’orrore, la fa uccidere.

Il capolavoro di Richard Strauss è tratto dal dramma di Oscar Wilde che nell’Europa di fine secolo suscitò scandalo e censure. L’incesto, la necrofilia, la blasfemia irritarono la società perbenista, ma furono anche gli ingredienti del successo che da allora ha sempre accompagnato sia l’opera di Wilde che quella di Strauss. 

La musica risente del passaggio epocale dal tardo romanticismo ai primi barlumi dell’espressionismo, insieme alla morbidezza ed alla sensualità dei valzer appaiono le asprezze degli scatti improvvisi dove la tonalità si fa incerta. Dopo la “prima” a Dresda, nonostante la censura incombente, il successo fu clamoroso e coinvolse il mondo musicale. Rifiutata dalla cattolica Vienna fu eseguita a Graz alla presenza dei coniugi Mahler, di Zemlinsky, di Shoenberg, di Berg, di Puccini e, pare, di un giovane Adolf Hitler.

Eliminare le sovrastrutture

La regìa antirealista  di Barrie Kosky sfronda l’opera di tutte le sovrastrutture della tradizione, non ci sono i fantasiosi riferimenti biblici, non c’è la reggia, l’atteso clou dell’opera, la danza dei sette veli, non c’è, al suo posto mentre la musica scorre, la protagonista sta in un angolo del palcoscenico e dalle gambe aperte estrae una lunghissima treccia, un episodio di misterioso significato, forse un parto blasfemo successivo ad una fecondazione avvenuta con la ciocca di capelli strappata al profeta. 

I costumi sono essenziali, Salomè cambia più volte d’abito, da diva seducente a giovane innocente, Erode ha un anonimo doppio petto grigio, mentre Erodiate indossa un tailleur Chanel che non riesce ad attenuare la sua perversione, il profeta è letteralmente in mutande, i cinque ebrei, incappucciati ed anonimi in sformati costumi tutti uguali. La scena, come già detto, è l’interno claustrofobico di una scatola nera, un non luogo senza spazio illuminato dal raggio di luna che di volta in volta colpisce i personaggi. 


Gli interpreti sono al livello della genialità della regìa, la protagonista Lise Lindstrom riesce a esprimere la contorta personalità di Salome con un canto ed una recitazione da antologia, il suo registro acuto suscita brividi, il basso-baritono Nicholas Brownlee è un profeta umanissimo ed empatico, Joel Prieto è un dolce e appassionato Narraboth, John Daszak è un tenore specialista del Novecento, il suo Erode ben rappresenta la tensione tra le pulsioni incestuose e la sottomissione ad Erodiate ben interpretata nella sua ambiguità da Katarina Dalayman. Perfetti anche gli altri comprimari.

L’Orchestra del Teatro dell’Opera guidata con sensibilità e decisione dallo specialista Marc Albrect ha regalato al pubblico romano una prestazione memorabile, in particolare hanno brillato i legni e le percussioni, grande equilibrio con le voci che emergono sempre senza ombre. Scena (!) e costumi essenziali e funzionali di Katrin Lea Tag, luci protagoniste di Joachim Klein, drammaturgia di Zsolt Horpacsy, regìa ripresa di Tamara Heimbrock. Applausi entusiasti dopo i cento minuti dell’unico atto letteralmente volati.

Visto il 14-03-2024