Non è facile parlare di uno spettacolo teatrale tratto da un racconto di Roberto Saviano senza parlare oggi dello stesso Saviano. La questione è complicata non tanto da una ipotetica spigolosa ingerenza della figura dello scrittore nella messa in scena teatrale, quanto dalla presenza asfissiante di un contesto civile che si muove per assistere ad uno spettacolo nella convinzione che un fantasma inquietante aleggi e debba aleggiare all’interno del teatro Delle Palme di Napoli, tra le poltrone di velluto ed i corridoi affollati di spettatori, come tra i tanti vicoli adiacenti del quartiere di Chiaia. Mai vista tanta polizia ad una recente prima teatrale, con due volanti a circoscrivere il territorio; ed è invece sempre presente la fastidiosa voce alle spalle dello spettatore qualunque, pronto a ribadire che Saviano ha lucrato sulle tragedie sociali ed ambientali di Napoli.
Difficile dunque per un cronista estraniarsi da un contesto così segnato e condizionante e parlare semplicemente di estetica teatrale e di scrittura scenica, se non di recitazione e di drammaturgia. Dopo aver portato Gomorra a teatro, Mario Gelardi ha curato la regia di Santos, sconosciuto racconto di uno scrittore che, nel bene come nel male, è diventato suo malgrado un’icona significativa della società dello spettacolo. La messa in scena ha proposto una vicenda minore di camorra che vede protagonisti quatto ragazzini con la passione per il calcio ed un capoclan emergente che li assolda come vedette contro la polizia, facendoli giocare a pallone in una brutta piazza di periferia.
Bisogna partire da questa piazza e dal Supersantos che l’attraversa - il popolare pallone di plastica con cui i ragazzini giocano in strada - quando questi quattro ragazzini giocano con altri compagni del quartiere. La strada ed il pallone. La vita in comune e le passioni personali. Un luogo di oppressione e la voglia di riscatto. Gelardi ha creato una piazza dall’atmosfera arrugginita delimitata da pannelli rossi e grigi bucati da tante feritoie: lo spazio scenico ricorda quello di un carcere e delle sue tristi grate, un angusto spazio simile a quello che hanno vissuto gli eroi antifascisti di Fuga per la vittoria, film più volte citato. La vita sembra essere oltre la cornice della piazza, se non fosse per un pallone arancione che dà senso alla giornata e che permette di guardare qualche volta attraverso le feritoie, non solo per avvistare la polizia e dare l’allarme. E il camorrista, in una delle prime scene, buca con una lama, non solo simbolicamente, il pallone, dettando le regole di chi vive a Gomorra. Ma al mondo esiste anche la trasgressione, la speranza della trasgressione, e uno tra i ragazzini, il più talentuoso con la palla, romperà in qualche modo la catena che lega incessantemente oppressore e oppresso, carnefice e vittima, padrone e servo.
In questa piccola storia di riscatto la scena è livida, i dialoghi sono serrati e spesso in dialetto napoletano, mentre le interpretazioni risultano complessivamente corrette e misurate. Ma tutto questo forse non ci dice ancora la distanza che andrebbe scovata tra il fantasma di Saviano ed uno spettacolo, figlio in qualche misura della sua opera. Gelardi ha saputo creare una scrittura scenica asciutta e violenta, in cui il battito del pallone e quello del cuore si sovrappongono confondendosi ed ha incorniciato, con l’espediente di una voce fuori campo, la storia di questi quattro ragazzini come una telecronaca sportiva. La camorra ha conquistato, infatti, l’economia, ha monopolizzato i poteri del calcio ed ha violentato la società civile, rendendo feccia un popolo che ha chinato da tempo la testa davanti ad una minaccia che dura da oltre un secolo: davanti a tutto questo un teatro post-brechtiano, civile, impegnato come quello di Santos sembra oltrepassare o precedere il discorso della cifra estetica per parlare con la semplicità più disarmante della legalità. Solo a quel punto potranno forse scomparire i fantasmi che sembrano avvolgere l’esperienza di una città che si confronta con uno spettacolo.