Prosa
SCANNASURICE

Scannasurice: il divino e l'umano trovano completezza

Scannasurice (Imma Villa)
Scannasurice (Imma Villa)

C’è una doppia dimensione in questo spettacolo che obbliga lo spettatore a guardare oltre le pareti di una casa diroccata, possiamo ritrovare qualcosa di appartenente a ognuno di noi.

Quando le pareti fanno “giacomo giacomo” non è solo la casa a tremare, trema il cuore, tremano i sentimenti, vacillano l’identità, il senso di appartenenza, perfino le radici sembrano non essere più così solide. Un terremoto fuori e dentro. Scannasurice, scritto da Enzo Moscato dopo il terremoto del 1980, è un testo metaforico, che scardina la retorica e i luoghi comuni, è un tentativo di restituire memoria e volto a una città e ai suoi abitanti, quei “surice” che si aggirano e si infiltrano in ogni angolo nel tentativo di rubare, prendere, approfittare e che hanno ormai rimosso cosa si cela dietro e sotto le macerie.

Un femminiello dei Quartieri Spagnoli, una creatura androgina e senza sesso, rappresentata da una eccezionale Imma Villa, porta sulla scena un testo poetico in cui le parole sono chiavi per rivelare mondi, segreti, leggende antiche e verità taciute. Questa creatura eterea, che si aggira sulla scena creata da Roberto Crea, ha una doppia natura, divina e terrena, è prostituta, fattucchiera, vergine, donna, disvela ad una ad una le carte ormai dimenticate: la bella ‘mbriana che vive tra le pareti domestiche, i personaggi del quartiere, le dicerie, le malelingue, la vita vissuta; il tutto in un dialetto-rivelatore, la lingua dei padri che restituisce sangue al sangue.

C’è una doppia dimensione in questo spettacolo che obbliga lo spettatore a guardare oltre le pareti di una casa diroccata, lì dove si nascondono i surice e le memorie, lì dove, come in un gioco di specchi riflessi, possiamo ritrovare qualcosa di appartenente a ognuno di noi. In questa “discesa agli inferi”, la morte appare quasi una scelta catartica, un modo per esorcizzare ogni azione fatta e ogni parola detta, è un tendere la mano alla fine di un percorso in cui ciò che è stato rivelato non potrà essere ripetuto una seconda volta.

Il divino e l’umano trovano completezza in quest’atto estremo e naturale, in uno scambio reciproco di miracoli e peccati originali. “Ciò che è vecchio deve morire”, questo monito, scritto su un biglietto da mano ignota, forse non umana e lasciato tra le mani di un neonato, è quindi un lasciapassare, una frase magica che salva e ripone speranza in una vita nuova.

Visto il 19-02-2016
al Nuovo di Napoli (NA)